La psicoterapia esce dalla finestra: il setting dopo la pandemia.

Questo fu l’invito che lasciò Hillman: la psicologia deve uscire fuori dalla finestra dello studio dell’analista[1]. La metafora suggeriva, negli anni novanta, il bisogno di Psiche d’uscire fuori dal confine del setting analitico per tornare nel mondo, da dove essa muove e dove essa ci spinge a fare il suo lògos infinito, a ‘fare anima’. Parlo del movimento psicologico che muove dallo spazio interiore verso quello esteriore. L’analista inizia il paziente al viaggio interiore: l’obiettivo dell’analisi è il ritiro delle proiezioni. La patologizzazione stessa muove dall’esterno verso l’interno, e con essa il paziente si protegge dal mondo proprio nel luogo della stanza d’analisi. Il suo percorso alchemico è destinato a scendere verso il “basso” e verso il “dentro”, così come nel mito di Psiche raccontato da Apuleio, il quale suggerisce che una volta raggiunta la casa di Ade con la scatola nera datagli da Afrodite, Psiche dovrà riportarla alla dea con dentro il dono della regina dell’Ade, Persefone: la sua bellezza invisibile come invisibile è la vera bellezza nella psiche. Così allora come ultima prova nel suo percorso di iniziazione e poter rinascere, la nostra psiche dovrà scendere negli inferi, il regno della ricchezza delle immagini del profondo, per acquisire quel dono e poi ricondurlo all’anima del mondo.

La psicoterapia è quindi un percorso che muove dalle prove, dai conflitti e dalle sofferenze subite dall’esterno e vissute fin dentro al luogo interiore del mondo infero, il mondo delle immagini e luogo della loro cura. Tale è il setting analitico, da cui si dovrà tornare nella realtà quotidiana con una nuova capacità immaginativa: vedere bellezza anche laddove sembrava non esserci. Perché è nelle cose invisibili e interiori che appartengono ad Ade e Persefone, sembra suggerirci Hillman[2], che possiamo raggiungere l’anima del mondo. In analisi come ogni giorno, l’anima ci porta a “fare” nuove immagini: possiamo scoprire la bellezza di nuovi orizzonti prima inimmaginati, trovare in ogni cosa la bellezza invisibile all’occhio diurno. Ciò che si fa con l’analista dentro la sua stanza è metafora e specchio di ciò che si deve riportare “là fuori” nel mondo, perché il mondo “là fuori” è il mondo “qui dentro”. Con la metafora di affacciarsi alla finestra, Hillman esortava a non rinchiudersi nel setting analitico, a non trovare in esso solo difesa e rifugio dal mondo, ma a raggiungere la capacità di alzarsi da esso e andare a vedere il mondo là fuori con nuovi occhi. Ovvero, attraverso quella visione in trasparenza di cui Hillman parla in “Re-visione della psicologia”: la capacità di vedere e stare all’essenza invisibile, al significato delle cose come bellezza interiore, e di riuscire a vedere questa bellezza nelle proprie ombre così come in tutte le cose del mondo. Riconoscere che il mondo esterno e quello interno sono l’uno specchio dell’altro non è solo lo scopo di un lavoro, quello di cambiare se stessi, ma è anche un mezzo per poter essere in grado di cambiare il mondo che ci circonda. Una interpretazione letterale di questo passaggio puo’ portare a pensare che basti curare il mondo là fuori per curare il proprio mondo interiore. Già Jung metteva in guardia da un certo “junghismo”, ricordando che ‘si fa di tutto, anche le cose più strane, pur di sfuggire alla propria anima. Si compiono esercizi di Yoga indiano di qualsiasi osservanza, si seguono regimi alimentari, si impara a memoria la teosofia, si ripetono testi mistici della letteratura mondiale, tutto, perché non si sa affrontare sé stessi, e perché a gente simile manca ogni fiducia che dalla loro anima possa scaturirne qualcosa di utile. Così gradatamente l’anima è diventata quella Nazareth dalla quale non può nascere nulla di buono; per questa ragione la si va cercando ai quattro venti, e quanto più è lontana e bizzarra meglio è[3]. Così abbiamo vissuto l’epoca dei wanderlust, dei travel bloggers, ispirati alla generazione beat come rifiuto del mondo moderno, alla continua ricerca di sé stessi all’esterno, nel materialismo come nell’esotico, nell’eroico, nel sempre nuovo e diverso. Abbiamo cercato di espandere la nostra coscienza così come i nostri orizzonti fisici, ma non quelli interiori perché il “fare anima” è anzitutto un movimento verso il profondo, non prima fuori che dentro. Abbiamo letteralizzato nel mondo esterno quel viaggio alla riscoperta della propria natura nascosta e selvaggia, quella nekya interiore e quella morte alchemica così necessari a una caduta delle proiezioni e al cambiamento di prospettiva, così come Christopher McCandless ha fatto nel suo percorso evolutivo raccontato nel bellissimo film Into the Wild, finito proprio con la sua morte. Hillman ci aveva esortato a migliorare il mondo migliorando noi stessi, perché se il mondo va sempre peggio è perché noi andiamo sempre peggio. Troppo spesso nella modernità abbiamo rifiutato il viaggio nell’Ade per uno in seconda classe intercontinentale, e così facendo non abbiamo riportato indietro alcun vaso nero con dentro il nostro dono, ma soltanto un vaso cinese o un altro trofeo da dimenticare in casa. Così come facciamo ogni mattino quando ci svegliamo, ci dimentichiamo di ricondurre dalla stanza d’analisi le immagini del mondo infero alla vita quotidiana. Questo movimento delle immagini dell’anima che tornano nel mondo fa parte del processo di psicologizzazione[4], e non dev’essere nemmeno confinato al solo setting terapeutico: lo stesso Hillman ricordava che non bisogna solo leggere libri di psicologia, ma fare letture psicologiche dei libri[5]. Ciò che abbiamo perso è il contatto con l’anima del mondo, a cui dobbiamo ricondurre le immagini che recuperiamo dal nostro mondo infero.

Hillman estende l’ambito della terapia archetipica, centrata sull’immagine, fino ad abbracciare il mondo sensibile degli oggetti della percezione e delle forme abituali dell’ambiente naturale e civile: paesaggi, strade, edifici, ma anche sistemi burocratici, linguaggio convenzionale, alimentazione, istruzione. Come scrive in “Psicologia Archetipica” (Treccani, 1980), la psicologia archetipica è infatti un movimento culturale che ha “l’ambizione di recuperare l’anima mundi, scrutando le sembianze del mondo come una fisiognomia estetica. Un siffatto orientamento ravvisa nella terapia qualcosa che travalica di gran lunga i confini dell’incontro tra due persone in privato: il compito che la teoria si assume è quello di re-immaginare il mondo pubblico nel quale vive il paziente. Questo concetto di terapia cerca di attuare la base poetica della mente nel quotidiano, come una risposta estetica, immaginativa. Ogni persona reagisce all’ambiente, quando viene riconosciuto come “immaginistico”, in modo più psicologico, con la conseguenza che il concetto di “psicologico” si estende anche all’estetico, e la “terapia” – prima limitata alle ore nello studio del terapeuta – si trasforma in un’incessante attività immaginativa ovunque, in casa, per strada, a tavola o davanti alla televisione. La liberazione della terapia dal confinamento nello studio del terapeuta richiede anzitutto una “ri-valutazione” dell’identità psiche-sentimento, quell’identificazione dell’individuo con l’emozione che caratterizza tutte le scuole psicoterapeutiche sin dalle ricerche freudiane sull’isteria da conversione, sull’abreazione e sul transfert. In breve, la terapia si è interessata dei sentimenti personali, e le immagini del paziente sono state ridotte ai suoi sentimenti”. Hillman ci insegna a rovesciare il rapporto tra sentimento e immagine: “i sentimenti vengono considerati, come ha detto William Blake, «influssi divini», che accompagnano, qualificano e animano le immagini. Non sono personali, ma appartengono alla realtà immaginale, la realtà dell’immagine, e contribuiscono a far sentire l’immagine come un valore specifico. I sentimenti elaborano la sua complessità, e la complessità dei sentimenti corrisponde a quella dell’immagine che li contiene. La verità non è già che le immagini rappresentino i sentimenti, bensì che i sentimenti ineriscono alle immagini”. Poiché ogni evento viene sperimentato come un’immagine, esso è al tempo stesso animato e caricato di emozione. “Il compito della terapia è quindi quello di ricondurre i sentimenti personali (ansia, desiderio, confusione, noia, infelicità, ecc.) alle immagini specifiche che li contengono. La terapia tenta di individuare il volto di ogni emozione: il corpo del desiderio, la faccia della paura, la situazione della disperazione; i sentimenti sono immaginati sin nei particolari”, come nell’arte e nella poesia, e ciò riporta l’io e la coscienza a riconnettersi col sostrato simbolico e immaginistico del mondo e all’anima mundi.

Finché un giorno è venuta l’anima del mondo stessa a contattarci con la pandemia. Costretti alla quarantena, confinati in casa a ridefinire i nostri orizzonti (da òros, limite, confine), la pandemia come “malattia dell’anima”[6] ci ha imposto una riflessione sulle distanze, sui limiti e sui confini dei luoghi in cui viviamo. Improvvisamente ci siamo trovati costretti a guardare in faccia il quotidiano da cui, come wanderlust, scappavamo. Il mondo intero ha improvvisamente patologizzato l’incapacità dell’uomo moderno di viaggiare in un movimento interiore, di “stare in casa” come di stare nel luogo della propria intimità, muovendo verso quel “dentro” e quel “basso” del proprio mondo infero, come dentro il setting, laddove andiamo a cercare la bellezza di Persefone per portarla da Afrodite. Volenti o nolenti, abbiamo faticato a uscire dalle immagini della nostra vita perfetta costretti a entrare nella casa di Ade. Così inizialmente abbiamo visto tutto come brutto, pesante e doloroso, dalle mura della nostra casa al quartiere dove abitiamo. Eppure, se Hillman fosse ancora vivo, avrebbe potuto vedere milioni di persone improvvisamente affacciarsi alla finestra per guardare fuori, cercando quel luogo “altro” in un orizzonte diverso, costretto a ridefinirsi come immaginale: perché è stata proprio la capacità di re-immaginare il mondo, e di vedere la sua bellezza oltre l’apparenza conosciuta, che ha permesso molti di acquisire, seppur per pochi attimi, quella “visione in trasparenza” di ciò che accadeva anche là fuori come dentro. Abbiamo avuto tutti occasione di fermarci a guardare il mondo in un modo diverso, con uno sguardo più intimo, più accogliente e interiore, e forse siamo riusciti a guardare al bello essenziale. Abbiamo sofferto, forse soffriremo ancora, almeno finché il malessere per lo stare nel luogo intimo non ci avrà portato laggiù, in quel viaggio nell’Ade, a recuperare una visione del mondo perduta, una visione dall’interno. Eppure, qualcosa di reale è successo: le stanze delle nostre case si sono trasformate nelle nostre stanze d’analisi, dove l’analista è entrato come chiunque altro in smart working. Il setting, la ritualità, sono stati messi in crisi: ciascuno si è ritrovato affacciato alla finestra della stanza d’analisi, come della propria stanza, guardando fuori e vedendo davvero, forse per la prima volta, che ciò che c’era “là fuori” era come ciò che che c’era dentro. La stanza dell’analista non era poi così differente dal nostro studio o dalla camera da letto. Gli orizzonti del setting si sono improvvisamente trasformati in quelli della nostra casa, della nostra famiglia, del nostro lavoro, del nostro quotidiano. Ci siamo ritrovati tutti a fare psicoterapia “là fuori”, a fare anima nel mondo.

Nell’ansia di voler continuare a far qualcosa per non sentirci in ansia, molti di noi hanno provato a continuare a muoversi solo verso l’esterno, limitando l’ampiezza e gli spazi del movimento. Abbiamo tentato di fare qualcosa di fisico, con le mani e con le gambe: ci siamo cimentati panettieri, pasticceri, pittori, camminatori, corridori, letteralizzando l’opus alchemica come il viaggio nell’Ade. Nel bisogno di far nascere un nuovo modo di essere, molti hanno adottato un cane, altri hanno deciso di fare un figlio, altri ancora hanno chiesto la separazione o hanno reiventato la propria professione. Quando siamo usciti di casa, molti hanno riempito i parchi, sono andati a correre nei boschi, hanno passato più tempo possibile fuori, facendo percorsi ed escursioni, ritornando nei paesi d’origine, improvvisando un turismo di prossimità quasi dimenticato, talvolta scoprendo nuove bellezze e tesori inaspettati. Alcune di queste persone hanno iniziato davvero a vedere il mondo con occhi diversi. Si sono fermate un momento a guardarne i particolari, hanno accolto sincronicità con gli eventi e le forme che accadevano intorno, domandandosi quale fosse il significato di ciò che stavano vivendo. Forse quelle persone sono riuscite a riportare dall’Ade il dono di Persefone ad Afrodite.

Io stesso mi sono ritrovato a cambiare passo e a cambiare occhio, a osservare la mia casa e a “sentirla” non solo con la vista ma con i miei sentimenti e con tutto il corpo. Ho provato a osservare gli oggetti della mia casa con un’attenzione nuova, più profonda, più vicina al loro valore reale. Non solo mi sono affacciato alla finestra, ma sono uscito fuori e ho riportato quest’attenzione alle strade e ai palazzi, agli alberi e ai giardini, ai murales e ai monumenti del mio quartiere, ritrovando nelle loro trame, nelle forme e nei materiali, nei suoni e nei colori, un’immensa bellezza così vicina, riuscendo a coglierne un significato sia soggettivo che collettivo. Nonostante vivessi in un appartamento modesto di un quartiere popolare, così mi sono sentito nuovamente vivo, resuscitato nella bellezza della mia casa e dei suoi dintorni, nei parchi della città, nei tantissimi luoghi segreti della regione in cui vivo. Stavo riportando il dono della quarantena in superficie, nella mia polis psichica; stavo facendo quella che Hillman chiama una “politica della bellezza”[7]. La città stessa è metafora della nostra casa, come luogo coabitato dalla nostra anima e dall’anima del mondo. Hillman stesso esortava a recuperare l’attenzione alla bellezza nella città (e quindi anche nella casa, del luogo abitato), quella bellezza curativa ben aldilà degli aspetti esteriori e decorativi, che puo’ incidere in senso profondo sulla qualità della vita. Non parlava di bellezza in senso edonistico, ma in senso affettivo e animico: dobbiamo porre l’attenzione alla bellezza naturale delle cose, quella bellezza in grado di incidere in profondità sulla psiche individuale e collettiva, e che riguarda il nostro modo di vivere e di stare al mondo. Un mondo moderno che sempre più vive una fame di bellezza, cercandola però nell’aspetto esteriore, che da solo non porta al benessere né ad alcuna vera soddisfazione.

È il nostro senso del bello a riportarci fuori di noi, a renderci attivi socialmente e personalmente, invece che a chiuderci in noi stessi. Il senso del bello ricopre infatti di libido il mondo oltre noi stessi, rendendolo il luogo dove la nostra anima vuole muoversi e transitare. La bellezza del luogo in cui viviamo è perciò il primo aspetto da curare se vogliamo essere cittadini più felici e vivere in una città e in una casa più efficienti, ma anche avere un comportamento più incline al sostegno reciproco, alla convivenza pacifica e al benessere interiore, aspetti a cui la pandemia ci ha costretti a riguardare. Per Hillman è importante che nel luogo in cui viviamo ci siano cose fatte a mano, qualcosa che sia creato e fisicamente forgiato da noi stessi, e che con ciò sia immagine del nostro essere e risuoni positivamente con esso. L’arte, la pittura, l’architettura sostenibile, ma anche tutte le cose che viviamo quotidianamente devono poter stare in armonia con la nostra psiche, in modo che noi possiamo sentirci collegati ad esse, sentirle “animate” cioè sentire la loro anima e risuonare positivamente con esse. Le immagini di cui abbiamo bisogno non sono soltanto un mucchio di oggetti inanimati, cioè senz’anima, ma cose e luoghi che abbiano un significato concreto per le persone, come i manufatti o i luoghi naturali. Fare cose fatte a mano, come dipingere, suonare, ristrutturare la nostra casa, sono tutte attività che possono acquisire per noi un significato profondo e un elevato effetto terapeutico, perché tutto ciò che facciamo con l’ambiente in cui viviamo è lo specchio di noi stessi, l’immagine esteriore dove noi possiamo ri-conoscere e ri-trovare una bellezza interiore, il dono riportato nel mondo da Psiche attraverso l’Ade, dal nostro percorso di sofferenza.

Così è successo che la psicoterapia, dopo la quarantena, ha cambiato orizzonte ed è uscita dalla finestra. È entrata nelle case, nelle scuole, nei parchi urbani. Abbiamo visto fare terapie nei giardini, seminari nelle terrazze, attività psicoeducative nelle riserve naturali. È tornata prepotentemente nella polis, e andata “là fuori”, a fare anima nel mondo, è arrivata persino in cima alle montagne e nei sentieri più selvaggi. Oggi, ad esempio, si parla sempre più di psicoterapia outdoor setting[8], cioè che passa dal setting interno al setting dell’ambiente naturale. E con sé sta riportando lo sguardo alla bellezza degli spazi dimenticati, depositari di significati. La pandemia, in realtà, non ha ristretto ma di gran lunga ampliato l’orizzonte della psicoterapia, così come dei suoi metodi e delle tecniche. Un setting, come luogo, è uno spazio necessario all’essere umano per sentirsi accolto, contenuto e reale. È insieme un territorio concreto e una dimensione simbolica evocativa. È uno spazio che, come la polis, oggi racconta sia delle persone che lo hanno abitato nel passato, sia di quelle che lo abitano nel presente. È un registro di passaggi, di tracce sedimentate, posate sui pavimenti, sui muri, affacciate alle finestre della stanza dove è ambientato il nostro sogno come dello studio dell’analista. Un luogo è quindi una “narrazione” che si palesa attraverso l’immaginario che di esso si va costituendo dentro di noi stessi. Il luogo è tale soltanto perché esistono delle persone che lo considerano il loro luogo e che lo abitano, lo popolano, lo vivono, lo pensano e lo modificano interagendo con esso. Il luogo, come il setting, è le sensazioni che ci evoca, le immagini che ne costruiamo e quelle che ne ereditiamo col nostro passaggio e la nostra permanenza. La stanza della psicoanalisi, come luogo di narrazione di se stessi, è allora un luogo perfetto, “il luogo dei luoghi”: un paese dove noi viaggiamo per conoscere noi stessi. Oggi non è più soltanto il luogo fisico in cui avviene la consultazione psicologica, il setting della concezione medica della cura[9]. Freud utilizzava la metafora delle condizioni di “sterilizzazione” ambientale ed emotiva della stanza dell’analista, che rende possibile al chirurgo portare a compimento il proprio operato in uno spazio e in un tempo definiti. Oggi lo studio dell’analista è un luogo dove la sterilizzazione è diventata reale e a norma di decreto, qualcosa che anche noi psicologi siamo costretti a fare nel mondo fisico e non più solo in quello immaginale. La psicoterapia stessa è andata oltre al setting ed è uscita dalla metafora della sterilizzazione, per ritornare nei luoghi prima solo immaginati, sfuggendo alla fisicità dello spazio e del tempo a cui essa era stata costretta da una visione ancora troppo scientifica del movimento dell’anima. Così allo specchio il setting dell’analista, da luogo fisico e reale, è diventato soprattutto un luogo metafisico e simbolico. Esiste nella sua essenza, nello stare insieme all’analista e il “sapere con” lui (da syn-balléin, “simbolo”, che significa “stare con”, “riunire insieme”), non importa più dove. Il setting è nello “stare con” l’analista, sia esso un luogo fisico che virtuale come attraverso il telefono nella terapia online. Attraverso il transfert che si crea con l’analista, la narrazione del paziente diventa una dimensione immaginale, fatta cioè di immagini psichiche che egli tende a proiettare sul mondo esteriore. Queste narrazioni costituiscono il sapere dell’analisi, un “sapere con” che oggi il paziente conquista, strada facendo, attraversando i suoi luoghi quotidiani, in un setting che è già fuori dalla sua finestra. Le immagini del mondo interiore sono già fatte nel mondo esteriore, a pochi metri dal partner e dai figli o nella propria auto, mentre si sta davvero viaggiando oppure seduti all’ombra di un albero in un parco, insomma nei luoghi della vita che prima era solo “là fuori” e a cui bisognava tornare dallo studio dell’analista, con in mano il vaso nero di Psiche che non sapevamo dove appoggiare. La pandemia ha quasi tolto i pazienti dall’imbarazzo di dover tornare a casa stravolti o pensierosi dopo un’intensa seduta di analisi. Tuttavia nell’esame di realtà, la divisione tra mondo interno ed esterno non è più confusa come prima: la psicoterapia parte sempre da dentro ma si fa fuori dalla finestra come movimento verso l’esterno, direttamente nel mondo come in casa nostra. È l’incapacità di riconoscere e riportare nel mondo esterno le immagini interiori, infatti, che ci fa vedere sempre tutto come esterno, anche quando siamo dentro. Così la proiezione lascia il posto alla sincronicità e al suo scopo, quello di portare nuovo senso e significato alla mia storia, nonché un posto nel mondo al mio vissuto interiore. Il gatto che vedo non è proprio quello del sogno, e forse è per questo che l’ho sognato, per rendermi conto di come è fatto il gatto, per guardarlo ora con altri occhi, per carpirne il significato. Il bosco in cui sono non è come quello sognato, ma forse è perdendomi qui che mi sento diverso, che sono solo con me stesso e con le risorse che ho per sentirmi vivo e vero. La donna che amo non è brutta come avevo sognato, ma forse è per questo che ora me ne sto accorgendo: per rendermi conto che non la guardavo sotto questo aspetto, che ha un’altra bellezza di quella che vedevo.

In una tale prospettiva, i luoghi che gli individui abitano possono ugualmente costituire un setting analitico, uno spazio sia esterno che interno dal quale partire insieme per un viaggio nel profondo, alla ricerca della propria bellezza, per ricongiungersi con la propria anima. Un luogo dove cadere addormentati e poi svegliarsi, dove avere una finestra a cui affacciarsi, un passaggio da cui infine uscire per tornare a fare anima nel mondo e realizzarsi.

A questo scopo, abbiamo creato Cammini Nella Psiche©, un’opera d’arte immaginativa in cui la nostra psiche viene rappresentata camminando direttamente nell’ambiente naturale e nei suoi luoghi. È una serie di passeggiate archetipiche, che passano per strade e sentieri dei maggiori parchi dell’ambiente urbano e suburbano, attraverso torrenti sacri, boschi e cascate, antiche tombe, templi e luoghi di culto, rovine e città scomparse, ovvero i luoghi abitati dagli stessi dèi, spiriti e daimones che popolano il mondo delle immagini della psiche. Partendo dall’”etica del camminare” iniziata dai romantici come narrazione della rêverie o sogno a occhi aperti, con un riferimento alle tecniche dell’outdoor setting e della mindfulness, abbiamo concepito un modo del tutto nuovo di fare escursionismo in modalità sia individuale che di gruppo. Utilizzando le conoscenze e i metodi della psicologia analitica archetipica, il partecipante viene portato a conoscere se stesso nei sentimenti, nelle emozioni e nei significati delle immagini psichiche che sono direttamente presenti sul territorio naturale nella forma di archetipi. Questi possono essere ad esempio piante e animali, fonti e specchi d’acqua, grotte e ponti, geometrie naturali e forme architettoniche, fenomeni metereologici e geomorfologici, fino alle storie e i miti che riecheggiano nei luoghi, e alle divinità o energie che li abitano e vengono spesso percepiti come presenze. In questo modo, viene stimolata ed attivata la capacità di visione in trasparenza, che caratterizza il ritiro delle proprie proiezioni patologiche sulle immagini della realtà esterna e sugli altri, portando l’individuo a ritrovare le proprie immagini e ri-conoscere la propria anima come facente parte dell’anima mundi, e così eventualmente favorendo la guarigione dalla sofferenza della psiche.

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