Nato sulle lingue di sabbia di Atlantic City, James Hillman ha girato il mondo per riscoprire i suoi miti e le sue culture prima di diventare per dieci anni il direttore del Carl Gustav Jung Institute di Zurigo, e di fondare la Psicologia Archetipica alla fine degli anni settanta del secolo scorso. Affermò tuttavia di non considerarsi il fondatore di una scuola di pensiero, bensì si riteneva membro di una comunità di persone impegnate, ciascuna nel proprio campo, in una re-visione delle cose nel mondo. Hillman è stato infatti un vero e proprio artista della psicologia: come nell’arte, mira a coinvolgere e a mobilitare, tradendo, in questo, la sua formazione esistenzialistica. Gli piace la polemica, la persuasione, la controversia, che situa in ogni pagina, in ogni frase di ogni suo articolo o libro. È proprio con il suo stile unico di fare psicologia che ci ha costretto a ripensare, ri-vedere e re-immaginare la psiche e il nostro modo difettoso di studiarla. Ha sfidato la mentalità egocentrica, antropocentrica e positivista che ha fatto nascere la stessa psicologia come strumento di potere e controllo, e ci ha lasciato un’eredità critica e culturale di inestimabile valore, l’unica che ci salva dai pregiudizi e dagli abusi della scienza, della medicina e della psicologia dell’Io. Vediamo in breve che cos’è la Psicologia Archetipica, e quali sono i suoi maggiori contributi.
Le storie che curano
Nel suo fondamentale libro “Le storie che curano”, Hillman riparte da Freud, riconoscendo il suo genio non per aver scoperto l’inconscio – un’idea già ben nota nel mondo antico e romantico -, né per averci lasciato i suoi soggettivissimi e per questo inutili metodi dell’associazione libera dei ricordi e dell’interpretazione del sogno, ma per aver capito che la psiche produce immagini, storie e fantasie che noi tendiamo a rimuovere, un’attività poetica e mitopoietica che, se ripristinata come racconto, costituisce un metodo curativo. Non a caso l’unico premio che Freud vinse nella sua carriera fu il premio Goethe per la letteratura: l’arte della psicologia risalta nella sua scrittura e narrazione. Occorre anzitutto re-visionare il modo in cui si scrive la psicologia, perché la terapia dipende proprio dal narrare le proprie storie e dal modo in cui noi significhiamo gli eventi in un certo tipo di racconto.
A partire da quella di Cicerone, Hillman applica la nozione rinascimentale di retorica, secondo la quale ad ogni stile di espressione corrispondono un dio o una dea, ovvero una certa energia psichica o forza che si manifesta già nel modo del linguaggio, delle parole e dell’espressione. Poiché le parole sono immagini e le immagini sono il modo in cui si manifesta la psiche nelle sue parti, l’analisi diventa quella del linguaggio e delle parole utilizzate nel discorso, giacché le parole sono gli stessi dèi o archetipi della psiche. Ad esempio, nel linguaggio dello stesso Hillman lampeggia la vis polemica di Marte, e Pólemos era infatti una sua versione. Ma c’è anche Peito o Persuasione, il gusto venusiano per la sensualità e il coinvolgimento delle parole e delle idee, assai raro nella letteratura psicanalitica. “Di tutti i peggiori peccati della psicologia, il peggiore è stato proprio quello di non aver onorato Bellezza o Afrodite”, avrà a dire Hillman. Nemmeno manca Saturno, con il suo irriducibile amore per la tradizione e l’astrazione, la ponderosità e la minuzia delle note e dei riferimenti. Soprattutto, i molteplici sensi di Ermes il dio della duplicità della comunicazione, il dio che rivela l’intuizione profonda; ed Eros come passione e spirito creativo. Stile e immaginazione sono essi stessi metodi psicologici: l’immaginazione è l’attività primaria della psiche, quindi la scrittura e la lettura del caso clinico devono riflettere innanzitutto l’immaginazione.
Hillman considera la ricerca e lo studio dei casi clinici come fantasie elaborate all’interno del genere retorico della scienza oggettiva e della formulazione tecnica. L’empirismo ha un suo stile letterario e non va necessariamente preso alla lettera nel suo contesto. Casistica e ricerca non hanno, per Hillman, posto privilegiato tra i vari modi retorici di descrivere le realtà psicologiche. La comunità degli psicologi oggi preferisce ancora la retorica della ricerca e dello studio letterale dei casi, ma esistono altri stili più validi proprio perché psico-logici e non materialistici e letterali. Questa è la critica con cui Hillman mette radicalmente in discussione i presupposti di fondo dell’industria terapeutica, che scambia continuamente la psiche per il corpo e il comportamento volitivo, così scambiandola per l’Io.

L’anima e il metodo delle immagini
Per molti, Hillman è semplicemente uno junghiano, e ancora oggi l’uso che gli junghiani purtroppo ne fanno è quello di una spezia con cui condiscono le portate più insipide. Molti analisti junghiani più ortodossi lo considerano addirittura un traditore, un eretico. L’apparente contraddizione può forse essere risolta tenendo presente che Hillman deve ancora essere ben capito e accettato dalla stessa comunità degli analisti, che sta ancora finendo di digerire l’immensa e visionaria opera di Jung. Inoltre, partendo da un’opera più vasta di quella di Jung, Hillman si pone in rapporto con una tradizione più ampia; spazia dalla cultura platonica a quella romantica fino alla filosofia degli oggetti e dell’immaginazione, va da Marsilio Ficino a Giambattista Vico, e dunque torna a Jung più che con devoto rispetto filiale, con appassionato coinvolgimento. Rielaborando con precisione e originalità il pensiero di Jung, gli è più vicino, ed è più fedele al suo spirito di quanto non siano tanti riverenti seguaci. Hillman ha saggiato tutti i più importanti territori junghiani, dalla tipologia alle sindromi cliniche, dalla teoria dei complessi a quella dell’istinto, all’alchimia e alla teologia. Ha inoltre elaborato molte idee germinali di Jung, mettendone in rilievo l’attualità per la nostra vita civile, e ha portato alla luce nella teoria delle idee, alla maniera di Jung, nuove fonti a cui il pensiero junghiano può attingere.
Una delle prime cose fondamentali che Hillman reintegra dalla tradizione è l’utilizzo della scomoda parola «anima», che già Jung aveva restituito alla psicologia ma tuttavia restando in riserbo su un suo uso sistematico al di fuori del riferimento archetipico. Sono molte le ragioni che la rendono congeniale a Hillman: essa elude ogni definizione riduttiva; esprime il mistero della vita umana; connette la psicologia con la religione, l’amore la morte, il destino. Allude alla profondità, e Hillman si vede come un discendente diretto della psicologia del profondo, le cui origini lontane risalgono a Eraclito e alla sua affermazione che “nessuno potrà mai scoprire i confini dell’anima, neppure percorrendo tutte le strade, tanto profonda è la sua natura”. Ogni volta che Hillman usa le parole «psicologia», «psicologizzazione», «psicologico», il riferimento è sempre alla profondità e al mistero. Hillman prende seriamente anche l’affermazione di Jung secondo cui la psiche è immagine, è fatta d’immagini; e arricchisce questa idea radicale – nulla esiste che non sia metaforico, poetico – con l’espressione di Mundus Imaginalis che Henry Corbin trasse dai suoi studi sull’Islam. Il «mondo immaginale» di Corbin non è né letterale né astratto; e tuttavia è assolutamente reale, ma con leggi e finalità proprie. E il mondo immaginale è la matrice di tutto il percorso teorico di Hillman.
Il lavoro sui sogni, per esempio, richiede che vengano riconosciute l’integrità e l’autonomia del sogno. Hillman rifiuta ogni traduzione simbolica e allegorica dell’immaginario onirico in idee, concetti e applicazioni di tipo umanistico oppure scientifico. Il sogno non viene a raccontarci o a spiegarci ciò che accade nella veglia, ma rappresenta ciò che è attivo nella psiche. Perciò, come ho esposto nel mio libro “Il sogno e la sincronicità” (Edizioni MaGi, 2024), è semmai all’interno della sincronicità che esso instaura con l’io diurno e il mondo della veglia che noi possiamo leggerlo come metafora significativa. Non dovremmo dissipare il sogno nella luce del giorno, ma recarci nella terra del sogno e lasciarci toccare dalle diversità di quel mondo per imparare a “vedere psicologicamente”. Quasi tutti i metodi interpretativi come quello di Freud – dai più rozzi ai più raffinati – sono per Hillman tentativi eroici, erculei, di spogliare l’immaginazione per difenderci, in ultima analisi, dalla provocatoria alterità del sogno, dell’immagine. D’altra parte, Hillman deplora l'”errore naturalistico”, ovvero l’aspettativa che i sogni seguano le leggi della natura quali noi le conosciamo, e la tendenza a trovare in difetto il sogno quando esso devia dalla nostra visione di abitanti del mondo supero. L’approccio terapeutico di Hillman non privilegia mai l’Io: in questo senso il suo lavoro è vera psico-terapia, terapia dell’anima. Il “fare anima” non è interpretare, non è modificare le immagini, non è migliorare sé stessi: questi sono moderni tentativi di prevaricare il destino e dunque di imprigionare l’anima, colei che invece “sa”, orienta e dirige tutto attraverso le immagini.
Il profondo rispetto per ciò che è dato autonomamente dalla psiche o anima induce Hillman a porre la lente sulla patologizzazione. Hillman afferma che l’anima per sua natura patologizza. Sarebbe a dire che ci caccia appositamente nei guai, e interferisce intenzionalmente con lo scorrere placido della nostra quotidianeità fino a ostacolare i nostri tentativi di controllarla e di rendere i rapporti tranquilli. Con ciò, l’anima produce infatti una distorsione della visione logica e razionale delle cose, che intende porre l’accento su di essa. Spontaneamente, infatti, l’anima presenta immagini patologizzate: fantasie assurde, contorte, immorali, dolorose e spesso morbose, che sono preziose rivelazioni della presenza e della volontà dell’anima, consentendo un accesso alla via personale, che non sarebbe altrimenti possibile percorrere senza di essa. Esorta quindi non a cancellare i sintomi e le patologie, ma a proteggerle e penetrare più intimamente nella loro ricchezza di senso. Come Hillman dissuade dal far evolvere i sogni a una forma necessariamente finita e razionale, nemmeno gli interessa la rapida ed eroica eliminazione del sintomo, ma stimola all’amplificazione delle immagini e delle simbologie che con essi la psiche produce.
Il bisogno di idee psico-logiche
Una volta riconosciuta l’anima, Hillman ci tiene a distinguerla dallo spirito. Se lo spirito è l’energia invisibile, il nous che pervade l’universo, tutto ciò che esso incarna si anima e diventa anima. Le discipline spirituali tendono tuttavia a portare al di sopra e oltre la valle dell’anima, preferendole i picchi del mero spirito, che vuole disancorarsi dal mondo ed evadere da ciò che è basso e materiale, rischiando sempre di evadere anche dall’anima in quanto psiche ed energia invisibile che anima le cose. In un contesto in cui lo spirito (la religione, la scienza, le strategie di sopravvivenza, i concetti e il moralismo, l’idealismo, gli esperimenti spirituali della New Age, la ricerca della luce e il rifiuto dell’oscurità, la lotta del bene contro il male, e così via) annovera tanti paladini, Hillman spezza una lancia in favore dell’anima, riconoscendo al tempo il valore dello spirito se supportato dalla conoscenza dell’anima, come nei linguaggi dell’arte, nell’espressione della sensibilità religiosa e, soprattutto, nelle idee.
L’intelletto occupa un posto speciale neghi scritti di Hillman. Alcuni, leggendolo, si fanno l’idea che sia uno psicologo intellettuale, un filosofo più che un terapeuta. Hillman, in effetti, reintegra anche la filosofia come origine della psicologia, e come critico della cultura sostiene con vigore il bisogno di idee psicologiche che non restino scisse da ciò che l’anima vuole. E abbiamo bisogno di una terapia delle idee, perché i nostri problemi, dice ancora, sono dovuti a idee malate, idee irriflesse, troppo razionali, troppo rigide o distorte dal materialismo e prive di immaginazione. Hillman ci esorta a usare l’intelletto per rinvigorire l’immaginazione; è l’immagine, infatti, l’immaginazione come mondo immaginale, il luogo dove Hillman si muove e fa psicoterapia. Deplora il fatto che la psicologia moderna abbia stituito le idee con parole nominalistiche, allegoriche, senza corpo. Oggi facciamo sondaggi, classifichiamo e scambiamo dati come se questo fosse pensare e fare anima. La cura sta nell’uso delle parole, e la perdita dell’anima e la sua patologizzazione si evidenzia anche nella perdita di parole e nell’analfabetizzazione di ritorno che osserviamo oggi sempre più con l’avvento dei mezzi di comunicazione di massa. Lui stesso mette grande cura nell’uso delle parole, sempre consapevole della storia immaginale di ciascuna, della sua etimologia e genealogia.
Il pensiero moderno crede di trovare il corpo nella raccolta letterale di dati. Quando l’esperienza è scissa dualisticamente in intelletto e materia, si tende a cercare il corpo nel letteralismo. Ma Hillman cerca il corpo delle idee e delle parole, il corpo dell’immagine. Per trovare il corpo delle immagini, dice, bisogna andare loro incontro e accettarle per come ci si offrono, nella corposità immaginale del particolare senso e significato che esse offrono oggettivamente alla nostra soggettività. Sarà allora che inaspettatamente l’immaginazione fornirà fondatezza e corpo, portandoci direttamente alla psiche. Ma bisogna crederci, credere che esista un’anima che come psiche dirige e determina ogni cosa aldilà della nostra logica scientifica e delle nostre credenze soggettive. Il mestiere dello psicoterapeuta è quindi quello di servire l’anima e riscattare la sua visione immaginale per psicologizzare il mondo.
Hillman non scrive mai dell’inconscio come di una zona distinta della psiche o di un campo d’indagine oggettivato. L’inconscio, tiene a sottolineare, attraversa e percorre ogni cosa, anche la psicologia. Lo spostamento dall’inconscio inteso come serbatoio psichico autonomo a una inconscietà presente in tutte le cose, se da un lato decostruisce gli oggetti, dall’altro permette a ciascun oggetto di rivelarsi appieno attraverso un’anima. Quando l’inconscio rimosso è proiettato lontano, delle cose vediamo solo il guscio, il simulacro distorto dalle ragioni moralistiche della proiezione. Quando esso è restituito all’oggetto, vediamo ogni volta ciò che è noto come se lo vedessimo per la prima volta, acquisendo ogni volta un punto di vista diverso su di essa, ovvero quello che propone l’anima della situazione. La terapia archetipica fa quindi sì che ci si muova sempre come se fossimo all’interno dell’anima o di un sogno, trattando tutto come materia immaginale.
L’anima svolge l’importante funzione di condurre l’individuo sempre più addentro all’inconscietà; ma non per “rendere cosciente l’inconscio” come diceva Jung, bensì per “vedere in trasparenza”, per “vivere miticamente”, per concepire la realtà come frutto dell’immaginazione mitopoietica; diceva Jung, come un esse in anima. Perché, proprio come in un sogno, per la costituzione di avere un io cosciente noi siamo sempre condizionati dallo scambiare il “cosa” vediamo con il “come”, e l’Io soggettivo sarà sempre un punto di vista limitato all’esperienza e alle concezioni razionali pregresse. Tutto il lavoro di Hillman è perciò una minuziosa amplificazione dell’idea junghiana di Psiche Oggettiva: il pensiero moderno è ancora intrappolato nella nozione riduzionistica secondo la quale lo psicologico (e lo psicologo stesso) è coesteso al personale, ovvero che la psiche sia la coscienza, sia tutta Io. Gli psicologi per primi sono convinti delle proprie idee, perché le idee sono modi di vedere le cose che ci posseggono, e se crediamo in esse in modo letterale possono farci perdere la via della psiche, fino alla distruzione del rapporto con essa.
“Per essere sempre più obiettivi dobbiamo essere sempre più soggettivamente vigili nei confronti degli archetipi ovvero delle dominanti dell’immaginazione, che ci consentono di vedere, o ci fanno vedere, le cose in determinati modi ben definiti. Se non sappiamo chi è in azione in un certa idea, veniamo catturati dal suo potere con maggiore facilità. Finiamo per identificarci con quell’idea, la difendiamo, lottiamo per essa, e ben presto finiamo per diventare dei fondamentalisti delle idee, che credono fermamente in un’idea perché “è veramente giusta”. I conflitti tra le persone sono guerre tra gli Dèi il cui smisurato potere olimpico conferisce alle idee una tale convinzione. Il sentimento della certezza deve venire da qualche parte che è al di sotto o al di là del consueto io, ed è quindi l’identificazione con il potere interno a un’idea, a dare a colui che la esprime il sentimento della certezza” (Hillman, Il Potere)
Aldilà delle idee, dei modi illusori perché soggettivi di vedere le cose, c’è il modo in cui vede la psiche coi suoi oggetti e contenuti inconsci. La Psiche Oggettiva dev’essere intesa come il mondo delle immagini e degli oggetti psichici aldilà del nostro soggettivismo. In analisi sarà soltanto mettendo da parte il metodo delle associazioni libere, e mettendo invece in primo piano l’amplificazione dell’ontologia delle immagini archetipiche e dei simboli, che noi riusciremo ad evitare di incappare nella reiterazione e nel rinforzo iatrogeno del razionalismo apollineo e del soggettivismo eroico dell’Io. Grazie a Hillman, dopo 1600 anni di ortodossia cattolica e censura monoteista il politeismo psichico ritroviamo un’anima fatta di molte parti e immagini diverse, connessa con l’anima del mondo, la psiche oggettiva negli oggetti.

Il ritorno al politeismo psichico
Proponendo di ristabilire la base della psicologia nella base poetica della mente, Hillman propone finalmente di riconoscere che la psicologia non ha il suo punto di partenza nella fisiologia del cervello, bensì nei processi dell’immaginazione. Le immagini fantastiche sono sia le materie prime e i prodotti finiti della psiche, sia costituiscono il modo privilegiato d’accesso alla conoscenza dell’anima. Non c’è nulla che sia più primario, quindi la psicologia dev’essere anzitutto una psicologia delle immagini del profondo. Dacché Eraclito riunì in un’unica formulazione anima e profondo, la dimensione dell’anima è la profondità (non l’ampiezza della coscienza e conoscenza delle cose, o l’altezza dello spirituale), e il nostro viaggio d’anima quindi procederà sempre prima verso il basso – una nekya, la discesa nell’Ade o nel mondo ctonio e infero. I termini «psiche» e «anima» possono quindi essere usati in modo interscambiabile, benché la tendenza sia oggi a eludere l’ambiguità della parola «anima» ricorrendo alla più biologica e moderna «psiche». Mentre con essa intendiamo di solito il naturale accompagnamento della vita fisica, «anima» ha una valenza metafisica e romantica, e le sue frontiere toccano quelle della religione.
Quando parliamo di anima, riconosciamo che essa sta in ogni parte e in ogni cosa del mondo, costituendone l’aspetto energetico invisibile e profondo. Ogni immagine diventa archetipica, e non ha più ragion d’essere una nomenclatura o elencazione di archetipi, perché ogni immagine è archetipica. Gli archetipi sono metafore e non cose: ci accorgiamo di non saper parlare degli archetipi in termini letterali, e siamo come portati a descriverli con similitudini e immagini metaforiche. Se ogni immagine è archetipica, l’aggettivo «archetipico» diviene ridondante in questa accezione; ma rimane a indicare un valore che nobilita e moltiplica l’accezione dell’immagine, la potenzia conferendole la pregnanza più ampia, rivolgendola al sacro, al divino, alla ricchezza del profondo. Poiché noi rimuoviamo e iconoclastizziamo l’anima in primo luogo nel nostro linguaggio, la terapia delle immagini attraverso l’uso delle parole deve restituire il loro valore polimorfo, poliedrico e polipsichico.
L’amplificazione delle immagini archetipiche intende anzitutto restituire la molteplicità della definizione e del valore delle parole ovvero delle immagini psichiche. Se non consideriamo la molteplicità dell’anima e delle sue possibilità metaforiche, l’Io si lateralizza su un solo punto di vista, significa le cose sempre con lo stesso senso, e crede in esso in modo letterale, diventando nevrotico. Quando scacciamo la molteplicità della definizione di noi stessi in altrettante molteplici e diverse parti, siamo condannati a vivere la frammentazione al di fuori, nel mondo esterno e nella società. Questo è ciò che è successo a causa del pensiero ortodosso imposto dalla Chiesa cattolica e puritana, da una parte, e dal pensiero razionalista e scienziata derivato dall’Illuminismo, dall’altra. Abbiamo bisogno di una psicologia che dia spazio alla molteplicità e al pluralismo della psiche, senza pretendere l’integrazione o altre forme di unitarietà e coerenza a tutti i costi. Nella molteplicità delle sue forme, l’anima è anche fatta di parti opposte, è ambivalente perché porta allo stesso tempo più valenze e possibilità, è opportunista perché invita a cogliere l’opportunità e a saper scegliere al momento opportuno quale parte di essa agire consapevolmente. In analisi come nella vita quotidiana, dobbiamo rifarci a un’etica situazionale, più che a un rigido codice morale. L’anima è nel mondo e nella situazione, per questo abbiamo bisogno di riconoscere il valore archetipico e terapeutico delle sincronicità come degli atti mancati, dei sintomi e di tutti quelli che l’Io considera “incidenti di percorso” come manifestazioni dell’anima e della sua orientazione.
Abbiamo bisogno di una psicologia che proponga un linguaggio adatto a una psiche dalle molte facce. Per questo Hillman propone un “ritorno alla Grecia interiore” come ritorno al politeismo psichico. «Politeismo» significa che la psiche è «molte cose», ma non significa che in ciascuna situazione valga qualunque cosa, e nemmeno che qualunque parte della psiche sia attiva in ogni momento. Non bisogna scadere nel fatalismo: l’Io è chiamato a partecipare attivamente all’agire consapevole della psiche con passione e coinvolgimento. L’anima ha molte fonti da cui trae significato, direzione e valore, e il politeismo non dev’essere mai inteso come caos e dissociazione psicotica, né come relativismo morale; anzi, tutto il contrario. È la rimozione della molteplicità a ritornare sotto forma di patologia e disgregazione dell’Io. Noi viviamo come demoni infestanti gli dèi della psiche che giungono a noi attraverso le immagini e le fantasie ma non vengono ascoltati, compresi e agiti consapevolmente nel modo e nel contesto psicologicamente idonei e sensati. Come disse Jung,
“Noi continuiamo a essere posseduti da contenuti psichici autonomi come se essi fossero davvero dèi dell’Olimpo. Solo che oggi si chiamano fobie, ossessioni, e così via. Insomma, sintomi nevrotici. Gli dèi sono diventati malattie.” (Jung, Psicologia dell’inconscio)
La psiche non è solo multipla: è una comunità di molte parti personificate, ciascuna con bisogni, paure, desideri, stili specifici e con un proprio linguaggio. Queste persone riecheggiano i molti Dèi che definiscono i mondi soggiacenti a ciò che appare come un essere unitario, e le cui dinamiche sono state già descritte e rappresentate benissimo nei miti e nelle leggende, così come nel teatro, nella letteratura e più in generale nell’arte, la prima e vera forma di terapia della psiche. Le immagini della mitologia politeistica sono di per sé terapeutiche perché danno spazio alla varietà e conflittualità dell’anima. Se il nostro orientamento di partenza riconosce nella psiche le sue molte e diverse direzioni, allora alle tensioni possiamo dare un’immagine; mentre una propensa al monoteismo trova insopportabile il conflitto e mirerà a una risoluzione unificatrice. La posizione politeistica fa sì che l’Io regga la tensione, affinché tutte le parti interessate trovino modo di coesistere.
Il politeismo psicologico sottintende una vita capace di abbracciare direzioni conflittuali, una vita che per imporre l’ordine non ricorre a gerarchie e principi razionali stereotipati o ritenuti superiori. L’ambiente psicologico della prospettiva politeistica è accettante e ricettivo nei confronti delle voci diverse che nella psiche possono creare conflitti, così come delle nostre manifestazioni di esse. In una situazione di politeismo, si allenta l’angoscia derivante dagli sforzi dell’Eroe verso l’integrazione, ad esempio quelli per stabilire a tutti i costi un orientamento sessuale fisso, o la propria morale di pensiero. Il principio guida psicologico diventa quello di dedicare a ciascuna figura psichica e divina l’attenzione che richiede, soprattutto quando lo richiede attraverso l’immaginazione. Ma, ovviamente, bisogna crederci, avere fede negli Dèi, ovvero nell’esistenza degli archetipi e di una psiche che ci orienta in ogni momento, anche attraverso i sogni notturni e le fantasie diurne. Soltanto riconoscendo il sostrato archetipico che regge l’universo riusciremo a trovare e a capire il nostro posto in esso. Quel “conosci te stesso”, che per i Greci era il massimo imperativo e compito nella vita di ogni individuo.
Servire l’Anima, ovvero la moralità delle immagini
La moralità imposta dal pensiero ortodosso cattolico, da una parte, e da quello positivista post-illuminista, dall’altra, è un problema ancora centrale per la psicologia e la psicoterapia. Le persone soffrono e sono nevrotiche soprattutto perché le parti più “basse” e istintuali della psiche sono state ricacciate nell’Inferno e tacciate di amoralità e inaccettabile irrazionalità dal pensiero logico-razionale dell’uomo scientifico moderno. Ma esse sono parti della psiche, proprio quelle parti che determinano la nostra vita aldilà del nostro sapere e delle nostre credenze. Il problema è stato aumentato proprio dalla prima psicanalisi freudiana, che, al pari della scienza e del positivismo, doveva liberarci dai dogmi della religione ma non ha fatto altro che ancorarci a una modalità di pensiero ancora del tutto antropocentrica e cartesiana, dove l’Io è chiamato a controllare l’inconscio, cioè l’anima e la psiche, finendo per perseguire gli stessi scopi di chiarezza morale e di subordinazione degli istinti che perseguiva la cultura vittoriana in cui è nata. La “nera marea di fango dell’occultismo” da cui la psicanalisi era sorta era quella stessa marea nera del rimosso e del perturbante psichico, l’Ombra che per Jung doveva essere reintegrata e riassorbita dall’Io. Hillman ci ha redarguito dal processo junghiano del “rendere cosciente l’inconscio”, questa massima divenuta ormai un “mito dell’analisi”, che Hillman smonta proprio nell’omonimo libro.
Per la Psicologia Archetipica, infatti, la moralità non è e non deve essere riposta nelle decisioni dell’Io – né del paziente, né dell’analista -, ma si trova già nelle immagini. Le immagini o fantasie psichiche vanno riconosciute nel loro valore ontologico religiosamente, ovvero come potenze che esprimono richieste. Mentre Freud e Jung attribuiscono il momento morale all’Io che risponde alle immagini e ai ricordi, Hillman psicologizza ulteriormente la questione, dichiarando che le immagini stesse inducono un senso di destino e di necessità interiore, con le sue limitazioni, che va seguito aldilà delle proprie credenze. Come secondo la tradizione antica, le immagini come daimones sono anche spiriti guardiani, messaggeri custodi del sapere dell’anima, che proprio con le sue immagini ci orienta e ci guida in ogni momento. Attraverso il coinvolgimento con le immagini, si rivela all’Io una moralità psicologica o immaginale, che non è più una nuova etica dell’integrazione dell’Ombra junghiana per mezzo di quello stesso vecchio Io kantiano, ma segue il precettore interiore, il daimon dell’immagine. Può sembrare strano, a un certo punto, scoprire che è proprio la fantasia dell’immaginazione, quella che sembrava l’origine del problema, la stessa base della certezza, e che niente è più certo e più psico-logico della fantasia: le cose sono proprio quello che sono, così come sono. Nulla va aggiunto al’immagine, che in analisi va presa così com’è, nel suo valore e senso ontologico e universale metaforico: quello è il messaggio, il precetto della psiche. Non ci sono, nelle immagini come nei sogni e nei sintomi, errori, omissioni o pericoli: per Hillman, l’anima non tende né a fregarci né a farci fuori. Bisogna avere un atteggiamento di «fede psicologica», ovvero seguire e servire l’Anima e le sue immagini.
Fonti bibliografiche:
James Hillman, Fuochi blu, Adelphi.
James Hillman, Re-visione della psicologia, Adelphi.

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