Si. Me l’ha fatta trovare la mia stessa anima, attraverso le sincronicità della mia vita. Nel mio caso, il filo conduttore fu un libro, “Le storie che curano” di James Hillman. Quando questo libro si presentò al mio cospetto, mi resi conto di ciò che mi andava accadendo: mentre la mia esistenza si costellava di dubbi, sintomi e problemi, viaggiavo su una serie di coincidenze significative che mi portavano alla scuola di psicoterapia Atanor, il luogo che diede sostanza alla mia professione e alla vita a cui ero destinato sin dalla nascita, il luogo dell’anima e della sua cura.
Dentro di me, essa sapeva da sempre cosa mi rendeva felice, cosa mi interessava veramente. Ero uno psicologo, ma veramente: uno che si interessa della psiche e del suo lògos, non delle chiacchiere che su di essa fa oggi la gente. Di una “psicologia dell’anima”, infatti, in giro non avevo ancora trovato granché riscontro: tutti parlavano di comportamento, test diagnostici e statistiche, e riferivano lo studio della psiche solo alle funzioni della mente e del cervello. L’anima mi sembrava sparita anche dalla facoltà di psicologia, ma nonostante ciò il libro di Hillman mi arrivò in circostanze ad essa collaterali, centrando il motivo per cui per molti anni avevo lavorato come psicologo nella ricerca scientifica tenendomi alla larga dalla psicologia clinica. Ricordo che all’università il solo dire “anima” era in grado di far stranire gli studenti e indispettire gli stessi professori. Nemmeno le ultime lezioni del grande Aldo Carotenuto furono in grado di intaccare la mia coscienza razionale. Seduto in fondo all’aula magna dell’università Sapienza, dove seguii il suo ultimo corso di Psicologia della Personalità prima che morisse, ascoltavo con grande interesse il suo racconto della scoperta dell’inconscio ma proprio per questo notavo con disappunto che nelle sue lezioni faceva ancora un largo uso proprio della parola “inconscio” a discapito della parola “anima”, che invece ricordo di aver da lui udito raramente così come anche dalla maggior parte degli altri analisti.
Mentre l’incertezza sull’esistenza dell’anima si respirava a pieni polmoni nei corridoi e nelle aule del suo ateneo, furono le neuroscienze che con le loro promesse di mi tolsero il respiro definitivamente. Così accadde che fui risucchiato nel tunnel della psicologia sperimentale, i cui corsi universitari e laboratori di ricerca andavano sempre più rimpiazzando quelli ormai rari di psicologia del profondo. Alla Sapienza di Roma, alla fine degli anni novanta, oltretutto non c’era alcuna traccia della psicologia archetipica di James Hillman. Nessuno conosceva il rivoluzionario erede di Carl Gustav Jung, nessuno studente lo menzionava nei propri discorsi, nemmeno fuori dalle aule, al bar o nelle aree limitrofe. Dopo la laurea mi dissero di partecipare a un dottorato di ricerca in materia di neuroscienze, e quando passai il concorso io accettai senza pretese, felice dell’opportunità che l’accademia mi stava offrendo.
Il problema principale della mia vita, quello della mia mancata realizzazione come psicologo clinico e della mia psicopatologia, era dovuto a un linguaggio mancato, quello dell’anima, a scapito di quello della scienza, che purtroppo la stessa psicologia utilizza. Hillman ribadirà che il linguaggio che oggi usa la psicologia non comunica nessuna emozione, né la bellezza dell’esperienza che descrive. C’è bisogno di un linguaggio nuovo che sia letterario ma non finzionale, così come Jung evitò quello concettuale nello scrivere la sua opera massima da questo punto di vista, “Il Libro Rosso”. Hillman dirà che il linguaggio più preciso per la psicologia è proprio quello della letteratura, così come l’unico riconoscimento che Freud ebbe in vita sua fu il premio Goethe per la letteratura. Ed io, che scrivevo poesie e leggevo romanzi, amavo la musica e le arti, mi ritrovavo ad avere problemi a esprimermi e farmi capire come psicologo, perché avevo una fervida immaginazione ma soffrivo il peso del linguaggio scientifico che avevo appreso, pieno zeppo com’era di appigli a cose concrete e rigide, definizioni nette e cifre. Nella mia ricerca di certezze, avevo paura di non farcela o di fallire nel poter vivere e lavorare a modo mio, e per non fare brutte figure o ritrovarmi impreparato, il mio linguaggio artistico l’avevo ormai quasi del tutto abbandonato, e così fui indottrinato a diventare un servitore della razionalità e della scienza.
Eppure, come ho detto, con un colpo di coda la sincronicità mi rimise sulla mia propria strada. Mentre la notte sognavo continuamente di perdere il mio cane e poi ritrovarlo in incredibili circostanze, un giorno decisi di abbandonare la mia carriera da neuroscienziato e tornare a fare davvero lo psicologo, ovvero quello che parla con la gente dell’anima della gente. Il giorno in cui diedi l’esame per l’abilitazione alla professione, mi trovavo di nuovo davanti alla facoltà di psicologia, ma accadde qualcosa di insolito e inaspettato. Dovevo incontrare una donna, che chiameremo Gaia, che avevo conosciuto per caso su internet: avevamo scoperto che entrambi eravamo psicologi e che avevamo scelto di abilitarci alla professione nella stessa sessione d’esame. Perlopiù accadde che risultammo convocati per lo stesso giorno dei vari della selezione. Come concordato, Gaia mi aspettava di fronte all’ingresso della facoltà; ma la trovai in compagnia di un uomo che chiameremo Francesco, e che il quel momento conobbi insieme a lei, scoprendo che lei tuttavia lo aveva conosciuto proprio lì per caso, solo qualche minuto prima, mentre mi stava aspettando. Anche Francesco era uno psicologo, e anche lui era stato convocato quella mattina per sostenere l’esame di stato. Tutti e tre un pò imbarazzati, parlavamo delle nostre storie di psicologi mentre ci avviavamo verso l’aula magna. Avevamo tutti e tre in comune il fatto che ci eravamo ritrovati a voler abilitarci alla professione dopo aver lavorato non come psicologi nonostante la laurea. Mi sembrò di trovare dei veri amici dopo tanto tempo, perché loro due erano amici speciali, non scelti da me ma dalle coincidenze e dal loro significato, e sembrava come se ci conoscessimo già da tanto tempo o da sempre. Ci sedemmo vicini e, come già affiatati, dopo l’esame andammo a bere qualcosa in un bar tranquillo per conoscerci meglio.
Improvvisamente il mio sguardo fu attratto da un anello d’oro a forma di serpente, che Francesco portava al dito medio della mano destra, come che indicasse la sua segreta identità e la posizione che aveva nel mondo. Francesco aveva anche una fede di matrimonio, ma in quel momento era come se quell’anello fosse stato la sua vera fede. Si accorse che lo stavo guardando, allora mi disse che quel serpente era un uroboro, un simbolo di cui Jung aveva parlato in alcune sue opere e a cui lui era molto attaccato. Gli chiesi quale fosse il motivo, e mi disse che un giorno aveva sognato quello stesso serpente. Non l’aveva mai visto prima, ma nel suo sogno il serpente ritornava su se stesso formando un cerchio, appunto come l’uroboro, e disse pure che da quel giorno aveva capito qualcosa di importantissimo, al punto da farsi fondere quell’anello da un orefice per portarlo sempre al dito e non dimenticarsi mai del suo significato. Poi esclamò di soppiatto: “Le storie che curano, di James Hillman. Devi leggere quel libro!”.
Non avevo mai sentito parlare di questo Hillman, e di Jung conoscevo ancora davvero poco. Chiesi a Francesco perché tutt’a un tratto mi consigliasse questo libro, e lui disse che glielo avevo fatto venire in mente io, mentre parlavamo del serpente. Disse che improvvisamente ne aveva visto uno nel mio volto, che gli suggeriva di leggere il libro. Non tanto un libro di Jung, ma proprio quel libro di Hillman, che era l’unico che di lui aveva letto. Non mi resi conto che in quel preciso momento quel serpente era in lui stesso, era in Hillman ed era in me allo stesso tempo: non avevo ancora capito bene cosa fosse un archetipo dell’inconscio collettivo, ma mi era chiaro che eravamo tutti immersi come in un sogno. Dopo quel giorno, con Gaia e Francesco iniziammo a sentirci assiduamente perché si creò come un transfert o una attrazione reciproca. Qualche settimana dopo, Francesco mi regalò un diario per scriverci i miei sogni. Da allora iniziai a ricordarli più intensamente, e a guardare ad essi con grande interesse. Li scrivevo in modo continuativo, e alla scrittura non lasciavo sfuggire neanche un dettaglio di quelli che ricordavo al mattino appena sveglio. Nel farlo, mi resi conto che scrivere i sogni è un vero e proprio lavoro letterario. Anzi, era come se ci fossero sogni di ogni genere narrativo, dal drammatico al poliziesco, dall’erotico all’horror. Facevo sogni come se fossero storie che la mia anima raccontava a me stesso, e ben presto mi accorsi che il mio punto di vista, come il modo in cui narravo il sogno, sembrava essere il fattore determinante per poter trarne informazioni sempre più utili per capire me e la mia vita. Iniziai a realizzare che la conoscenza di Gaia e Francesco era stata determinante per dare una svolta decisiva alla mia carriera e alla mia situazione. Ancora oggi, dopo anni che ci conosciamo, ci incontriamo e parliamo come dei perfetti sconosciuti ma mossi da una forza più grande che non la nostra sola voglia di uscire o frequentarci. Sulla prima pagina del diario, Francesco aveva scritto per me una frase di Jung, che diceva: “Un sogno è una porta nascosta nel santuario più profondo e più intimo dell’anima”. Erano stati proprio quei nostri piccoli ma immensi dettagli a coincidere, quei simboli e quelle parole, quei fatti personali accaduti come coincidenze significative, che si erano insinuata nella mia coscienza una nuova consapevolezza: la possibilità di vivere e lavorare com’era il mio sogno esisteva davvero, e ben più di una mera speranza essa si insinuava lentamente fino a vincere ogni mia resistenza al flusso degli eventi che per me erano stati decisi dalla mia stessa anima.
Il giorno che Francesco mi diede il suo regalo fu anche il giorno che finii di leggere il libro di Hillman. Quel libro, quella sua narrazione della psicologia, fu per me un lampo nella notte buia che stavo attraversando in quel periodo. Cambiando luogo di vita e di lavoro, non sapevo come procedere, ma le parole di Hillman illuminarono un sentiero nella giungla dove mi ero perso, e mi svegliarono professionalmente come un sogno che ti sveglia al mattino lasciandoti un’idea geniale in mente. Quel libro mi fece tutt’a un tratto capire come io avrei potuto lavorare coi miei pazienti, e grazie ad esso incominciai ad avere una visione di come, da quel giorno, da psicologo avrei usato la mia immaginazione negli anni a venire per la mia professione. Cercando su internet informazioni sulla psicologia archetipica, trovai la scuola Atanor, che mi apparve come il luogo dell’anima sin dalla prima foto. Non posso descrivere la sensazione di stupore mista a meraviglia quando sempre per caso scoprii che una psicoterapeuta della scuola Atanor avrebbe partecipato a un congresso di astrologia dove sarei voluto andare per mio interesse personale… parlando della psicologia di Hillman! Cosa avevano a che fare l`astrologia e l’alchimia con la psicoterapia? Esisteva dunque una scuola di psicoterapia ad hillmaniana? Come mai non ne avevo mai sentito parlare prima? Furono molte le domande che mi assalirono in quell’istante, ma fu quell’immagine di Anima, il volto sincero di quella donna nella foto del sito mi convinse a contattare la scuola nonostante l’anno di corso fosse già iniziato.
Fui convocato per il colloquio di selezione esattamente il giorno stesso in cui Urano entrò nel segno del Toro e in cui finii di leggere il mio secondo libro di Hillman, “Il Codice dell’Anima”. Si trattava di una prova del mio daimon, dove era in ballo la mia iscrizione alla scuola Atanor per specializzarmi come psicoterapeuta analitico archetipico, ovvero la decisione che avrebbe sancito il matrimonio con la mia anima e la realizzazione della promessa che essa mi aveva fatto attraverso il mio carattere e la mia vocazione, e che essa tentava di ricordarmi ogni notte e ogni giorno con i sogni e le sincronicità del quotidiano. Il viaggio da Roma alla scuola abruzzese fu per me un’esperienza mistica che ricorderò per tutta la vita. Ogni singolo fatto di quella giornata fu l’incrocio perfetto di coincidenze significative per me fortemente numinose. Mi basta citarne una per tornare a sentire ancora battere forte il cuore e commuovermi all’istante. Come quando, appena uscito da un tunnel dell’A24, mi trovai d’improvviso davanti la magica valle del Salto, sullo sfondo le cime innevate del Monte Velino e le Montagne della Duchessa: mi sentivo immerso nell’oscuro passaggio che stavo affrontando con la mia psiche, e d’improvviso mi ritrovavo nella “valle dell’anima”, dove ebbi l’illuminazione di esser sbucato finalmente nella sua dimensione. Guidavo sulla strada della mia pace dell’anima e verso la conoscenza dello spirito, e in quell’esatto momento la radio suonava la traccia “Study War” di Moby: “Finally brother after a while / the battle will be over, / from that day when we shall lay down our burden / and study war no more. / The battle will be over, / there will be no war… / The battle will be over, / there will be no war… / The battle will be over, / there will be no war…”. Questo stesso brano lo ritrovai in un sogno, che considero il primo grande sogno che accompagnò il mio percorso formativo alla scuola Atanor, nonché la trasformazione del mio modo di vedere e il radicale cambiamento che poi avvenne nel mio modo di vivere: il mio ritorno a una connnessione profonda con l’anima e l’immaginazione psichica.
Da qualche parte dove se ne stava nascosto, il mio daimon, il mio dèmone-serpente, agì in me ed io lo feci agire, e grazie alla fiducia che gli diedi ritrovai nell’opera di Hillman gran parte di quello che il dèmone stesso provava a dirmi da tanto tempo, sin da quando ero bambino. Non so se fu il libro, come certe opere fanno, a evocare il dèmone oppure se fu il dèmone in me stesso a evocare il libro attraverso il mio amico Francesco; tuttavia so che non ci fu molto di logico in ciò che stava accadendo, e che la mia professione, così come gli eventi che mi portarono a essere uno psicologo analista, si successero come quelli che mi avevano portato a conoscere e rivedere Gaia e Francesco, e a leggere il libro di Hillman. Poggiavano sulle basi dell’immaginazione, il vero lògos della psiche, e la strada che avevo trovato per la scuola dell’anima non poteva essere lastricata che di sincronicità come sogni e coincidenze significative. Come scrisse Emil Cioran, un libro deve frugare nelle ferite, anzi deve allargarle: un libro deve essere un pericolo. Ma un libro non è altro che letteratura, il linguaggio dell’anima stessa e la narrazione artistica che noi facciamo di essa. Ogni volta che lasciamo la strada asfaltata per imboccare il sentiero nascosto un’immagine di Anima tuttavia ci si para dinnanzi – quella parola del libro che ci colpisce, quel simbolo che ci perseguita o quella fotografia che ci incuriosisce. Un curioso incrocio di fatti le cui circostanze ci attraggono come enigmi, i quali ci chiedono di andare a vedere la verità nascosta dietro di essi. Noi non sappiamo dove stiamo andando, né cosa troveremo alla sua fine, ma stiamo comunque lasciando che una verità su noi stessi venga a trovarci. Questa verità è contenuta nelle immagini della nostra anima, laddove arriva quello sguardo, quel paesaggio, quella musica e nessun altro. È contenuta nelle ferite in cui ha frugato il libro che ci ha trovato, ma come scrisse proprio Aldo Carotenuto usando un gioco etimologico fruttuoso, quelle ferite sono le feritoie che consentono un colpo d’occhio nel mondo interiore, offrendo la possibilità di scrutare e indagare la parte più misteriosa e segreta di noi stessi, la parte sommersa che ha bisogno di venire alla luce. Per questo l’uomo sogna, narra e scrive. E poi, eventualmente, come me agisce iscrivendosi proprio alla scuola dell’anima, per realizzare il proprio destino: diventare un servitore dell’anima.
In conclusione, una scuola dell’anima è qualsiasi luogo, istituto o associazione, dove si insegna a seguire la propria strada, quella tracciata dalla propria anima e seguendo il proprio processo di individuazione. Questo è un percorso di acquisizione di consapevolezza su sé stessi, quello attraverso cui l’essere umano trova la propria strada per la realizzazione personale, divenendo realmente individuo e ricco perché dotato di un proprio peculiare carattere, di una speciale vocazione e di un personale destino. Non è un percorso di indottrinamento al modello di pensiero e di vita del mondo materialista e performante in cui viviamo, non è nemmeno un programma volto all’inserimento nel sistema capitalista e all’istruzione per il suo successo – non per il nostro – attraverso lo sfruttamento delle nostre risorse per attendere alle sue richieste. Una scuola dell’anima, come la scuola Atanor, è un luogo dove avviene l’educazione a riconoscere ciò che è e ciò che vuole la psiche. La nostra vocazione è la sua vocazione. È quindi la via dell’anima stessa che in questa scuola si impara a seguire senza perderla d’occhio.
Va da sé che in una scuola come questa troverete la vera ricchezza, quella dell’anima, e ne conseguiranno i denari giusti e i riconoscimenti invisibili ma più significativi della vostra vita, quelli dovuti all’espressione integra dei vostri contenuti più veri e importanti non solo per voi stessi, ma per la società e per il mondo. Seguire la via dell’anima significa seguire i nostri sogni e riconoscere come vivere per realizzarli. E non possono che essere proprio i sogni e il sognare il metodo cardine della riflessione sull’anima in questa scuola. Le sincronicità della nostra vita dimostrano che il contenuto dei nostri sogni può venire al mondo intessendo una rete di connessioni che ne riproducono il senso e significato. Se impariamo a ricostruire il significato dei nostri sogni come sincronicità, queste creazioni apparentemente casuali e tanto comuni da passare ormai inosservate rappresenteranno lo strumento privilegiato per accedere alla dimensione inconscia che giace al di sotto della soglia della nostra vita cosciente. La vita quotidiana oggi ci sottopone ad una serie di continue influenze che disturbano la nostra coscienza senza che essa possa difendersi, e questo ci induce ad assumere atteggiamenti che non si adattano alla nostra personalità. Nella scuola dell’anima imparerete ad attraversarle seguendo l’indicazione fornita dal sogno, che con le sue immagini fantastiche e i suoi simboli rappresenta in modo completo la nostra persona più vera. La nostra anima sincera è rappresentata nel sogno, che ci giunge come un messaggio o una sorta di campanello di allarme, un’indicazione proveniente dalla nostra parte profonda, sotterrata dalla civilizzazione ma ancora presente. La scuola dell’anima è quella dove è possibile affidarsi ai propri sogni liberamente, senza stereotipi né pregiudizi sul modo di essere e sull’orientamento della vostra psiche. È qui che imparerete davvero a essere voi stessi e ad aiutare la gente ad esserlo senza commettere ingerenze. Auguro a tutti di trovare la strada segreta, ma sempre presente, che conduce a essa nel più breve tempo possibile. A me è successo dopo i trent’anni, dopo che ho iniziato a risvegliarmi e ad osservare con più attenzione i segni e le tracce del passaggio che conduceva ad essa. Ma c’è sempre tempo per trovarla e per raggiungerla, e ne varrà sempre la pena.
(Nella foto: la scuola Atanor di Scoppito, L’Aquila)
(In copertina: fotografia artistica di Oleg Oprisco)
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