Troppo a lungo la psicologia si è interessata più che altro di elencare, classificare e determinare qualcosa di indeterminato e indeterminabile. Nel narrare le storie messe in atto dalla psiche, così come nella stesura dei suoi casi clinici, lo psicologo moderno ha finito per dimenticare ciò che era chiaro ai filosofi, ai teologi e ai saggi alchimisti, cioè che, per dirla come Eraclito, “per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, non potrai mai trovare i confini dell’anima, tanto è profondo il suo logos” (Eraclito, frammento 45). Il panta rei eracliteo, il “tutto scorre”, è infatti una delle migliori metafore che abbiamo per descrivere l’imprevedibilità, l’incalcolabilità e l’indicibilità della psiche aldilà dei semplici comportamenti osservabili in reazione agli stimoli esterni. E quindi anche l’impossibilità di stabilirne dei “confini”, ovvero il poter dire con certezza “in questo caso, questo è questo e deriva da quest’altro”, e simili. Eppure gli psicologi clinici, nei loro studi coi loro pazienti, sono i primi ad affannarsi quotidianamente per stabilire, determinare, definire la psiche e le sue presunte dinamiche e conflitti, scambiandola sempre per un mero comportamento ad un dato momento. Ad esempio, attraverso la continua invenzione e l’utilizzo di sistemi diagnostici e nosologici, come il DSM (il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali), forse il più grande strumento di potere deterministico tra quelli messi nelle mani degli psicologi, anche quelli “di primo pelo”, che poi sono proprio quelli che lo usano per lanciare forze invisibili a difesa della propria posizione come il Patronus di Harry Potter. La psiche del paziente entra con tutta la sua potenza e infinita complessità nello studio dello psicologo, che se non ben preparato ad accoglierla e com-prenderla nel suo polimorfismo e nelle sue molteplici sfaccettature, finisce immediatamente ad affibbiargli una etichetta diagnostica alla quale ricondurrà ogni sua azione, immagine e pensiero successivi, combattendo egli stesso, nel tentare di ridurla, la psiche del paziente. Il risultato è che le nevrosi e fissazioni degli psicologi vengono continuamente proiettate su quelle dei pazienti proprio attraverso le diagnosi e il determinismo psicologico, e lo psicologo finisce a inquadrare la psiche del paziente secondo uno schema archetipico che invece riguarda lo stesso psicologo e il suo modo di vedere il paziente, il suo punto di vista soggettivo sulla psiche.
È pur vero che a qualcosa di importante servono pure gli psicologi con le loro descrizioni e definizioni della psiche. Che tuttavia non devono voler mai essere determinazioni assolute e finite: il lógos della psiche rimarrà sempre aperto a circostanze e condizioni simultaneamente differenti. Carl Gustav Jung, e soprattutto James Hillman, ci hanno tramandato che gli archetipi – ovvero i pattern of behavior attivi nella psiche come arcaiche forme energetiche dell’essere – si dispongono sempre in configurazioni complesse e multivariate, in poche parole gli archetipi non sono mai una cosa sola. L’errore madornale che fanno gli psicologi che si fermano a una comprensione superficiale e a un utilizzo semplicistico degli archetipi – ad esempio, tronfi di aver letto i libri della Jean Bolen e di aver finalmente trovato un sistema deterministico molto più semplice e pratico delle complicate e lunghissime amplificazioni mitologiche e alchemiche di Jung e Hillman – è quello di usarli come categorie diagnostiche per protrarre l’approccio causalistico della psicologia cognitivo-comportamentale alla psicologia del profondo. Ciò è dovuto al fatto che non è semplice riuscire immediatamente a scorgere le dinamiche archetipiche sottese ad azioni, parole, immagini e sogni, proprio perché essi sono forze infinite e indeterminate della psiche. Il nostro piccolo io (anche quello dello psicologo mainstream) riesce a comprendere un archetipo soltanto dapprima immaginandolo come qualcosa di razionale e finito. Ragion per cui l’uso dei miti, delle metafore e dei simboli si è reso da sempre necessario e insostituibile per inquadrare le condizioni dei pazienti. Per comprendere a fondo cosa sono gli archetipi e capire come agiscono nel tempo, Hillman è riuscito a individuare nell’ambito della psicologia junghiana una sorta di “mito dei miti” o “super-archetipo”: il Puer-et-Senex o Senex-et-Puer. In un saggio specifico (“Senex-Puer. Un aspetto del presente storico e psicologico”, in Puer Aeternus, Adelphi, 1999, da pag. 51) opera una disamina della polarità presente in esso, assumendolo infine ad esempio di come ogni archetipo, a seconda del momento cioè della temporalità in cui si attiva rispetto alla comprensione egoica del tempo, tende ad assumere una polarità oppure l’opposta. Ciò implica che è necessario riconsiderare la teoria archetipica nell’ambito del concetto di sincronicità.
“Gli dèi non vengono mai da soli”
Jung e Hillman hanno più volte provato a spiegarci che la “faccia” o polarità specifica di un archetipo corrisponde all’aspetto o punto di vista che noi siamo in grado di cogliere o meno nella nostra specifica situazione e condizione mentale ad un dato momento. Ciò nonostante gli psicologi e gli analisti non approcciano quasi mai la psiche del paziente con questo approccio. Hillman cita Jung che dice: “Noi viviamo nel kairos, nell’attesa di una “metamorfosi degli dèi”, ossia dei principi e dei simboli fondamentali” (pag. 54). La lateralizzazione dell’io su un punto di vista fisso, che corrisponde a una polarità archetipica, conduce l’individuo alla nevrosi quando questi non è in grado di uscire fuori da quella visione egoica delle cose che lo inchioda nel conflitto, nel blocco psichico e nella sofferenza. Eppure, sono proprio il conflitto, il disagio e la sofferenza a dirci, ad esempio, che “è tempo di cambiare visione e atteggiamento”: l’anima ci parla proprio attraverso i sintomi, e le emozioni e sensazioni bloccate o inespresse sono forze psichiche ed energie, “dèi o demoni” della psiche che necessitano la nostra comprensione per poter entrare nel mondo e fare il loro corso (e il nostro). In psicologia clinica si usa, ad esempio, la valutazione della capacità dell'”esame di realtà” per definire la capacità dell’individuo di essere consapevole della propria individualità e di quella degli oggetti esterni in un determinato istante, e quindi in uno specifico stato della coscienza. Ad esempio, un adeguato esame di realtà (almeno per la diagnosi strutturale di Otto Kernberg) è costituito da assenza di sintomi psicotici e affetti, contenuti di pensiero e atteggiamenti inappropriati o bizzarri, e dalla capacità di provare empatia nei confronti di chi parla, interagendo in maniera collaborativa e adeguata. Possiamo immaginare che, in assenza di un adeguato esame di realtà, l’individuo sia “fissato” su un’immagine con un punto di vista polarizzato, che non gli consente di differenziare un oggetto o un’immagine dicotomica e le sue polarità, le sue diverse sfaccettature, idealizzando il polo o la “faccia” egosintonica e fondendosi con essa nell’identificazione proiettiva (ad esempio, i soggetti cosiddetti borderline vengono definiti come incapaci di questa differenziazione).
La facoltà di differenziare momento per momento l’immagine di sé e dell’oggetto, come l’immagine di sé e dell’altro, determina un parametro fondamentale della sanità mentale, e comporta la capacità di saper spostare il proprio punto di vista, il proprio io, tra le varie facce o polarità delle immagini archetipiche. In alchimia, come nei sogni, questa raggiunta capacità è simbolizzata dalla comparsa del pavone, l’animale nel cui piumaggio sono rappresentati mille occhi come i tanti punti di vista che contemporaneamente possiamo assumere su una cosa. Questa facoltà viene stimolata sia nella psicoterapia che nella meditazione buddista, attraverso l’uso del linguaggio e delle parole, oppure della concentrazione, dell’osservazione, e della riflessione, che sono tutte modalità immaginative. L’immaginazione cura la psiche in quanto fornisce l’elaborazione dei contenuti psichici in nuove immagini come nuovi punti di vista attraverso cui osservare una situazione e allo scopo di comprenderne il significato. Per questo la terapia archetipica utilizza tutte le tecniche immaginative: gli archetipi sono immagini e ogni immagine contiene una base archetipica. Quando osserviamo una immagine, dapprima ne vediamo alcuni aspetti, quelli che siamo abituati a riconoscere, ma poi dalla stessa immagine emergono altri aspetti imprevedibili: possiamo dire che è come se l’immagine si aprisse o si scomponesse nei suoi vari aspetti o polarità. Ciò appare più distinguibile nelle figure chimeriche o dicotomiche, come nelle illusioni ottiche. La realtà è tutta composta da configurazioni ambigue, perché l’ambiguità sia fa parte sia della realtà delle immagini, sia è insita nelle nostre facoltà percettive. L’io allora si abitua a vedere le cose in un certo modo, fino a quella condizione patologica in cui potremmo dire che “si blocca” o “si fissa” su una specifica configurazione, relativa a un certo archetipo o pattern of behavior. Ma gli archetipi non sono mai immagini fisse né configurazioni stabili di immagini: essi sono energie psichiche che, a seconda della circostanza, assumono una certa configurazione immaginale per poi confluire in altre forme archetipiche, senza mai cessare nel loro flusso come nel panta rei eracliteo. Allora, le persone sono “diagnosticabili”, cioè inquadrabili in alcuni pattern piuttosto che in altri, poiché assumono certe polarità archetipiche e si stabilizzano in esse, cioè l’io inizia a vedere le cose in un modo piuttosto che in altri e a comportarsi di conseguenza. Ma non sono le diagnosi a far cambiare le persone, anzi esse contribuiscono a rafforzare una visione lateralizzata degli eventi, perché costringono il paziente a giustificarsi entro quella certa storia del mondo e definizione di sé stessi, determinate dalla stessa diagnosi. Il paziente si attacca alla diagnosi clinica e poi tende, come lo psichiatra, a far rientrare ogni cosa dentro il suo quadro. Invece dice Hillman: “Nella pratica analitica abbiamo imparato come la comprensione archetipica degli eventi possa guarire la fascinazione coatta per la propria storia clinica. I fatti non cambiano, ma il loro ordine riceve una diversa dimensione attraverso un diverso mito. Sono esperiti diversamente; acquistano un diverso significato perché sono raccontati per mezzo di un racconto diverso” (pag.62).
Per questo la gente assume droghe: per assumere quell’energia dionisiaca capace di scomporre la nostra personalità nelle sue diverse configurazioni archetipiche, e così di sciogliere i famosi “freni inibitori” che diceva Freud, ovvero i nostri blocchi e le nostre fissazioni. Non a caso chi sente maggior bisogno di farne uso è proprio chi ha una maggiore difficoltà a cambiare punto di vista sulle cose nel momento in cui ciò si rende necessario per attivare una differente polarità archetipica. Molti pazienti, ad esempio, riferiscono di sentire il bisogno di attaccarsi alla bottiglia quando l’altr@ si comporta in un certo modo, o di assumere stupefacenti quando devono incontrare una certa persona o in una situazione considerata più stressante. Ma basterebbe riuscire a cambiare punto di vista sulla situazione e assumere una differente posizione archetipica o l’energia della polarità opposta. Questa capacità è insita nell’archetipo di Diòniso, di cui non mi occuperò qui in particolare ma a cui rimando per letture più specifiche su questa capacità. Qui ci interessa invece capire come mai le persone non riescono a cambiare polarità archetipica in un certo momento, e come riuscire a farlo. Non occorre fare uso di droghe perché, prima di accedere al nostro Diòniso interiore, possiamo comprendere come gli archetipi siano sempre “bifronti” o comunque interconnessi in configurazioni sincroniche: cioè, essi si attivano sempre in più parti e in più archetipi contemporaneamente. “Gli dèi non vengono mai da soli”, diceva Jung. Allora perdere il contatto con la polarità archetipica opposta, dice Hillman, significa “…mancare il kairos della trasizione, mentre il venire a patti con esso significa scoprire un nesso tra passato e futuro” (pag. 55). Kairos è il dio della sincronicità, ovvero il tempo concepito come Momento Opportuno, Opportunità e Occasione, e rappresenta l’intersezione tra due diverse temporalità: quella dell’evento psichico, e il momento specifico in cui l’evento entra nella nostra coscienza e nel mondo, e viene percepito e vissuto come tempo fisico. La sincronicità è infatti la coincidenza significativa che si realizza tra l’evento percepito coscientemente come “mio”, nel “mio tempo”, e un altro evento percepito come esterno e non direttamente collegato ad esso, che occorre nella sua temporalità distinta dalla propria. Ad esempio: “stavo raccontando di quel cane e lei mi ha fatto notare che nel cielo, proprio sopra di noi, c’era una sola nuvola a forma di cane”, indica la coincidenza del significato di ciò di cui si è coscienti in un dato momento fisico con ciò che si osserva nello stesso momento fuori di noi, ma comunque viene percepito come collegato alla coscienza in uno spazio-tempo psichico. “Dunque il kairos, questo momento unico e irripetibile di transizione della storia del mondo, diventa una transizione dentro il microcosmo, dentro l’uomo, dentro ciascuno di noi individualmente, mentre tentiamo di districare i nessi tra passato e futuro, tra vecchio e nuovo, che sono poi quelli espressi archetipicamente nella polarità Senex-Puer”: Hillman inizia così la sua disamina dell’archetipo “bifronte”, nel segno di Kairos ma anche di Ianus, divinità sia giovani che vecchie che separano e distinguono il tempo così come noi illusoriamente lo percepiamo linearmente nella nostra intuizione sensibile (Kant, Critica della ragion pura).
L’archetipo “bifronte” che regola tutti gli archetipi
La dicotomia polare tra Senex e Puer è presente ovunque dentro e intorno a noi, nella nostra vita psichica come nel mondo e nella storia dell’umanità. A causa della sua speciale relazione con il tempo, “questo particolare archetipo avrà a che vedere con il carattere di processualità di tutti i complessi, con l’intrico di giovinezza e vecchiaia, di temporalità e eternità presente in qualsiasi atteggiamento psicologico o parte della personalità” (pag. 67). Qualsiasi atteggiamento sul suo nascere può assumere le ali del Puer e spiccare il volo di un’iniziativa, un desiderio o un’idea da proporre, e può atterrare o rientrare in una psicologia più “senile” e farsi obsoleta, dare pesantezza o essere castrata, rientrare in delle regole o essere svalutata. “Il Puer ispira lo sbocciare delle cose, il Senex presiede al raccolto. Ma fioritura e raccolto si susseguono a intermittenza lungo tutta la vita” (pag. 70): Senex e Puer sono inestricabilmente legati nel processo temporale e con la natura stessa dello sviluppo e dell’individuazione. Ma, per sé, l’anima non è né giovane né vecchia: è entrambe le cose. Nelle persone ossessionate per la vecchiaia o la giovinezza, l’archetipo “bifronte” Senex-Puer viene scisso e l’io si fissa su una delle due facce, costringendo l’anima nel sistema cronologico del materialismo storico. Giovane e vecchio, inizio e fine, temporalità ed eternità, e caratteristiche affini come ad esempio velocità e lentezza, leggerezza e pesantezza, apertura e chiusura, possibilità e impossibilità, vengono scisse e si accetta solo una polarità dell’archetipo, ciò determinando un blocco cognitivo e affettivo, e l’incapacità di vedere e accogliere l’altra possibilità. Siamo noi stessi a limitarci con le nostre ragioni, nei nostri eccessi e nelle nostre convinzioni: piuttosto, siamo sempre potenzialmente bifronti, cioè portiamo sempre un aspetto puerile e uno senile in ogni momento. Il Senex e il Puer possono manifestarsi allo stesso modo in molte fasi della vita e influenzare qualsiasi complesso psichico. Allo stesso tempo, ad esempio, siamo Padre-Figlio o Madre-Figlia, o Padre-Figlia o Madre-Figlio, perché non esiste un’energia che genera, accoglie o dirige senza corrispondere a ciò che da essa è diretto, accolto o generato. Ciò vale anche al contrario: non può instaurarsi un archetipo “figli@” senza concorrere a ciò che come tale gli dà senso e forma. Siamo noi che, di volta in volta, siamo un io o un altro io.
Come dice Hillman: “La nostra normale coscienza diurna coglie una parte soltanto e la trasforma in un polo. Per la psicologia, la base ontologica della polarità è la coscienza dell’Io; la qualità della polarità, che può andare dalla antitesi conflittuale alla armoniosa cooperazione, dipende dalla relazione psicologica esistente tra coscienza egoica e inconscio” (pag. 73). La nostra base psichica è sempre una duplicità o molteplicità. Gli stessi Puer e Senex, singolarmente, portano con sé aspetti ambigui e caratteri dicotomici. Ad esempio, come Senex, Crono-Saturno è, da un lato, visto come “un benigno dio dell’agricoltura”, “il signore dell’Età dell’oro”, “il padre degli dèi e degli uomini”, dall’altro è “il divoratore dei figli”, “colui che inghiottì tutti gli dèi”, “il distruttore di tutte le cose”, “il cupo e solitario dio detronizzato”, “signore degli dèi inferi”, “dio della morte e dei morti”, e così via. Non pensiamo poi che il Senex sia presente o “maturi” soltanto nell’età anziana: esso “è presente dall’inizio, lo si ritrova nel bambino che sa dire “Io so” e “Mio” con tutta l’intensità del suo essere, nel bambino che è l’ultimo a impietosirsi e il primo a tiranneggiare, che distrugge quello che ha costruito, che nella sua debolezza vive in fantasie di onnipotenza orale e difende i suoi confini e mette alla prova i limiti imposti dagli altri” (pag. 92). Lo spirito Senex si coagula col passare degli anni, ed è proprio il Saturno presente nel complesso che lo rende così difficile da smantellare in terapia; ma è dentro di noi fin da quando siamo nati, e si attiva e condensa in ogni atteggiamento o situazione di potere, dominio, affermazione e distruzione. Compare nei sogni come padre, anziano, mentore, Vecchio Saggio; ma anche come roccia o montagna, o come tartaruga o elefante. Queste rappresentazioni dispensano autorevolezza e saggezza che sono aldilà dell’esperienza del sognatore. Ogni volta che un paziente è fisso su questa polarità, in terapia si lavora allora sull’opposta, cercando di illuminare e rinforzare il kairos delle possibilità, delle opportunità e dell’azione, stimolando non l’acting-out ma l’attivazione e l’utilizzo delle funzioni di intuizione e sensazione.
D’altra parte, il Puer – spesso concettualizzato come Puer Aeternus – costituisce una dominante archetipica che personifica le potenze trascendentali dello spirito, ed è in una relazione speciale con le forze dell’inconscio collettivo. “Le figure puer possono essere viste come manifestazioni dell’aspetto spirituale del Sé e gli impulsi puer come messaggi dello spirito” (pag. 97). Quando nell’individuo l’inconscio collettivo è rappresentato soprattutto dalle figure parentali, gli atteggiamenti e gli impulsi puer rientreranno nel quadro del “figli@ di mamma” o “figli@ di papà”, il perenne carattere adolescenziale di una vita provvisoria. Il Puer o la Puella, infatti, sono deboli sulla terra perché appartengono “a un altro mondo”, alla dimensione verticale dello spirito. La vocazione alla trascendenza dapprima vissuta all’interno del complesso familiare viene poi distorta nella “funzione trascendente” del problema familiare, in cui il figlio o la figlia tendono di redimere i loro genitori o di essere il loro Messia. Si riscontrano queste componenti puerili laddove i figli si preoccupano o si ostinano a far cambiare i propri genitori, a salvarli o redimerli dalla loro presunta fissazione, oppure nell’atteggiamento passivo-aggressivo di accettare da loro denaro e forme di controllo o potere seppur lamentandosene e giudicandoli fortemente come incapaci, inadatti o inesperti. A causa del suo accesso diretto, verticale, allo spirito, il Puer proprio non sopporta la tortuosità e l’attesa, e vede la meta da raggiungere contemporaneamente alla velocità, alla fretta e alle scorciatoie, per lui indispensabili per raggiungerla. La Grande Madre alimenta il Puer e allo stesso tempo, come archetipo, viene insieme ad esso, come le madri dei figli o delle figlie puer o puelle sono inconsciamente innamorate di essi, perché essi come portatori dello spirito nel mondo, rispecchiano la perfezione e l’immortalità venute da esse. Il Puer in fondo rifiuta l’evoluzione perché viene come già perfetto, e ogni volta che vediamo una difficoltà all’amore e al coinvolgimento emotivo, agli impegni e alle responsabilità dei rapporti, possiamo pensare a un’inflazione dello spirito puer/puella, che si affiancherà soltanto a una magica puella o a un principesco puer, a una figura ninfica o come sé stessi contraddittoria e ambigua, o ancora a una figura materna o paterna. “La sua sensibilità è in realtà pseudo-psicologica, un derivato dell’effemminatezza ermafroditica. Il Puer può cercare e rischiare; possiede intuizione, gusto estetico, ambizione spirituale, tutto, ma non psicologia; perché la psicologia richiede tempo, la femminilità dell’anima e il coinvolgimento dei rapporti. Piuttosto che psicologia, l’atteggiamento puer presenta una visione estetica: il mondo come immagini belle o come un vasto scenario. La vita diventa letteratura, avventura dell’intelletto o della scienza, della religione o dell’azione, ma sempre irriflessa e irrelata e perciò non psicologica” (pag. 101). In ogni complesso, il Puer offre un contatto dinamico e diretto con lo spirito e con la vocazione a raggiungere la propria perfezione e verso il Sé, a essere fedeli a se stesse, a mantenere il contatto con il proprio eidos che è creazione divina. Come curare il paziente puer? “Analizza l’inconscio, riduci le fantasie, prosciuga gli umori isterici, metti alla prova le intuizioni, tieni i piedi per terra, càlati nella realtà, trasforma in prosa la poesia. La volontà deve indirizzare la sessualità verso il rapporto; il tallone ferito va superato con l’esercizio del lavoro; e poi senso pratico, sacrificio, limiti, durezza. Stringere i denti, difendere le proprie posizioni, superare la provvisorietà con la panacea dell’impegno. Concentrazione, responsabilità, radici, continuità e identità storica: insomma, rafforzare l’Io. Nota bene: tutti queste immagini sono saturnine” (pag. 108).
La chiave è la congiunzione degli opposti
Prima di morire, Jung pubblica il “Mysterium coniunctionis: ricerche sulla sperimentazione e composizione degli opposti psichici nell’alchimia”, l’opera più importante degli ultimi anni della sua vita. Oggetto di questi studi, che tennero impegnato Jung per oltre trent’anni, sono le esperienze e le intuizioni acquisite mediante la sua diretta e personale “discesa nell’inconscio” attraverso le immagini dell’alchimia, incontrate nei testi antichi e nel materiale storico, mitologico e archeologico che andava studiando, così come nei sogni e nelle visioni personali e dei suoi pazienti. Per Jung, l’alchimia non rappresenta soltanto l’antecedente storico della moderna psicologia del profondo, ma soprattutto, con il suo infinito serbatoio di simboli e immagini, costituisce la prima rappresentazione di quegli archetipi sui quali ha innalzato l’edificio della psicologia analitica. In quest’opera, Jung spiega la “congiunzione degli opposti” come l’idea centrale del procedimento alchemico: la coniunctio oppositorum è la chiave di ogni trasformazione psichica e del cambiamento, metaforizzata nell’immagine primordiale di ciò che noi oggi chiamiamo combinazione chimica. Le sostanze che gli alchimisti cercavano di combinare nella realtà, possedevano ai loro occhi sempre un aspetto numinoso, e nella psiche corrispondevano ai vari aspetti della stessa cosa, il lapis ovvero la materia. Le sostanze, con le loro proprietà energetiche, apparivano come dotate di una doppia natura, e la congiunzione cui essi miravano era una operazione filosofica, l’unione di forma e materia. Maschile e femminile, solido e liquido, fuoco e acqua, terra e aria, ecc. erano le polarità attraverso le cui congiunzioni ripetute la sostanza assumeva nuove forme e proprietà, fino al raggiungimento di uno stato superiore, quello “dell’oro dei filosofi”. La descrizione alchemica delle prime fasi di unione degli opposti materiali corrisponde sul piano psichico a una coscienza primitiva, incapace di vedere più di una polarità alla volta e che rischia costantemente di sfaldarsi in processi affettivi individuali e soggettivi. Come sintesi psichica, la coniunctio rappresenta l’autoconoscenza a poter operare con le sostanze, come coi fatti e le cose del mondo, dove il Mercurio (il dio Ermes) era il medium della congiunzione. Il Mercurio degli alchimisti era una personificazione e una concretizzazione di ciò che noi oggi chiamiamo “inconscio collettivo” come spirito agente attraverso e oltre la materia. Al mondo diviso nei suoi opposti, si contrappone il mandala come immagine del lapis philosophorum ovvero di quella della capacità di comprendere la totalità delle immagini con tutti i loro opposti in equilibrio, la condizione atemporale e simultanea ideale in cui la coscienza raggiunge l’onniscienza divina come capacità di vedere da tutti i punti di vista possibili ogni immagine o situazione.
Se il simbolismo del mandala rappresenta per Jung l’equivalente psicologico dell’idea metafisica di una totalità e simultaneità, la sincronicità ne costituisce il parallelo psicologico. Per Jung, i fenomeni sincronistici si verificano nel tempo e nello spazio, ma mostrano una notevole indipendenza da queste due indispensabili determinanti dell’esistenza fisica e dunque non sono conformi alla legge di causalità. Il principio di sincronicità rimanda infatti a un’interrelazione o a un’unità di eventi o condizioni che non presentano un rapporto causale, e postula un’aspetto unitario dell’essere, così come della sostanza archetipica dell’universo, che Jung definisce come unus mundus. Quando accade il passaggio da una polarità alla reciproca, come quando spostiamo il nostro punto di vista da una polo all’altro di una dicotomia, stiamo operando una coincidenza significativa, ovvero stiamo rientrando nel campo dei fenomeni sincronistici. È come se da qualche parte, nel microcosmo e nel macrocosmo, ovvero nella psiche come nell’universo, il nostro evento sia collegato a un’altra spazio-temporalità in cui esso è rappresentato in una corrispondenza di significato tra diversi o opposti. Dice Hillman, “ci accorgiamo di avere in realtà descritto una segreta identità tra due metà – due metà non della vita, ma di un unico archetipo”. La sostanza archetipica dell’universo è infatti in grado di tenere collegati insieme spiritualmente l’inconscio personale con quello collettivo, e tutti i fatti e le immagini presenti tra le varie dimensioni dell’essere. La segreta identità tra le varie facce e vari aspetti della sostanza è stata rappresentata in figure archetipiche dicotomiche e ambigue come il dio etrusco Tagete, dall’aspetto di fanciullo coi capelli bianchi, oppure l’islamico al-Khidr, bellissimo giovane dalla barba bianca, e Lao-Tzu, il cui nome significa appunto “vecchio fanciullo”, senex-puer. “Jung descrive l’unione degli uguali: a) a un livello primitivo e pericoloso nella figura di Wotan (Odino), che ha attributi insieme giovanili e di Crono, e b) nelle figure del Sé di Mercurio, Dioniso e Cristo, viste ciascuna come senex-et-puer, che guarisce, e d) nel Re e nel Figlio del Re, due facce della medesima dominante, che rappresentano la totalità dell’individuo, coscienza e inconscio insieme” (pag. 112). Se la condizione strutturale preliminare del cambiamento è una tensione tra opposti ambivalenti, la chiave terapeutica si troverà “nel momento di mezzo” della congiunzione tra gli opposti, quando egli sarà in grado di comprendere la segreta identità delle due facce dell’archetipo o della relazione archetipica in lui conflittuale. Il Puer è il Senex, il Senex è il Puer; c’è una Puella in ogni Madre e un Puer in ogni Padre, una Kore o una giovane Artemide in ogni Demetra e viceversa; e Crono-Saturno sta al figlio Zeus come Zeus sta ai suoi figli. Ade è l’ombra di Zeus, così come Dioniso l’ombra di Apollo; o ancora ad esempio una coscienza ermetica occorre ogni volta che c’è una coscienza apollinea in azione per troppo tempo, oltre il tempo giusto. Tutti noi nella vita cerchiamo questa fusione di opposti e questa apertura mentale nelle situazioni, che rappresenterebbero proprio una sorta di super-coscienza metafisica alla quale tendiamo nella vita.
“Un nuovo modo di esperire l’ambivalenza”
Allora, la massima latina festina lente (“affrettati lentamente”) corrisponde all’ideale dell’Io basato sull’archetipo bifronte Senex-Puer e quella unione degli opposti che cerchiamo disperatamente. In quest’ottica, le sincronicità sono speciali circostanze in cui le configurazioni archetipiche rivelano alla coscienza il significato numinoso della loro ambiguità nell’unione in una totalità ambivalente. Ciò significa che è l’ambivalenza, quell’atteggiamento e quel modo di essere ambigui che tanto temiamo nella cultura moralista, la facoltà più importante e ambita, il vero lapis philosophorum, la panacea contro tutti i mali e il potere di risolvere ogni conflitto per compiere ogni desiderio. E non ci sono parole migliori di quelle Hillman (pag. 77) per spiegarne la funzione: “Come primo segno della ripristinata unione ci potremmo aspettare un nuovo modo di esperire l’ambivalenza. Di solito, dell’ambivalenza la psicologia dà un giudizio fortemente peggiorativo. La associa con la schizofrenia. Al pari dell’espressione «stato crepuscolare», «ambivalenza» tende a essere riservata a un Io difettoso. Ma l’ambivalenza è naturale, perché è il riflesso necessario dell’ambiguità della totalità psichica, la cui luce è in uno stato crepuscolare. Né l’ambivalenza, né la coscienza crepuscolare sono in sé stesse stati patologici, benché, come tutti i fenomeni psicologici, possano presentare forme patologiche. Il vivere nell’ambivalenza è un vivere dove sì e no, luce e tenebra, azione giusta e azione sbagliata sono adiacenti e difficili da distinguere. Di solito la psicologia affronta questa situazione facendo leva su una riaffermazione della coscienza attraverso la volontà e la differenziazione: consolidiamo l’Io, rafforziamo l’Io! Combattiamo la confusione dei sentimenti e l’indistinta luce soffusa della prima metà della vita oppure della vecchiaia. Invece, anziché sopraffarla in questo modo, si potrebbe lasciare che l’ambivalenza evolva in base al suo proprio principio interno. Anche questa è una via. Come esiste una via della volontà, esiste anche una via dell’ambivalenza, che può abbracciare l’archetipo nella sua totalità, conducendoci giù giù addirittura fino al livello psicoide”. La sincronicità è lo svolgersi dei fatti al livello psicoide secondo la modalità archetipica bifronte, laddove riusciamo a essere presenti alla simultaneità del processo archetipico anche aldilà del nostro punto di vista egoico e fin dentro l’opposto nella totalità. La via dell’ambivalenza è dunque la via della sincronicità.
In terapia, anziché correggerla, si potrebbe incoraggiare l’ambivalenza ad abbracciare paradossi e simboli via via più profondi, rafforzare le scelte e gli atteggiamenti di tipo “et et” invece delle posizioni “aut aut“. I sentimenti ambivalenti sono il sintomo dell’anima che ci chiede di non scartare una posizione a favore di quella opposta, e di aver maggiore fede nel proprio sentire fino a una comprensione più profonda del suo lógos ambiguo ma onnisciente. Spesso sono proprio i sogni a dirci quando il conflitto o il paradosso non deve essere scisso ma può essere portato avanti. Ad esempio, mentre di giorno una paziente era tormentata dai sensi di colpa per la profonda indecisione tra due diversi amanti, di notte sognava ripetutamente di dover accettare e portare a termine un certo compito che riguardava un calcolo preciso, quello di “fare della somma di due cose una cosa sola” oppure quello di “passare dal due al tre” o ancora quello di “trovare un punto prospettico che unisse o facesse convergere due punti o parti opposte”. A dare il compito nei sogni era ora una architetta, ora un professore universitario, ora una madre oppure un misterioso vecchio mago: il Senex cercava in tutti i modi di contattare l’io, che investiva la posizione passiva della Puella, per invitarla al compito e suggerire la soluzione del problema. Dopo un anno di terapia durante la quale la paziente ha portato avanti i due rapporti parallelamente e in modo diverso, senza tuttavia sceglierne uno a discapito dell’altro, le sue ansie e le sue paure si sono gradualmente sciolte e la natura dei due rapporti si è rivelata essere proficua e importante per la crescita e la maturazione dell’Io, nonché per l’individuazione della paziente nel suo mondo. Transitando l’immaginario del tradimento e imparando a comunicare assertivamente le sue intenzioni e i suoi sentimenti, la paziente è riuscita ad assumere un ruolo attivo e a combattere fino in fondo per la realizzazione della sua vocazione in un modo congruo alle sue necessità e possibilità. oltre che alle aspettative di familiari, amici e partner. Ma per poter fare ciò in analisi, occorre una fiducia indiscussa nel simbolo e una profonda comprensione dell’ambivalenza nel paradosso. Come il simbolo, il paradosso esprime sempre la coesistenza dei due poli all’interno dell’archetipo.
Concludiamo dunque con quanto conclude Hillman sull’ambivalenza (pag. 78): essa “… è la reazione adeguata della psiche integra a queste verità integrali. L’eliminazione dell’ambivalenza con la terapia elimina l’occhio con il quale possiamo percepire il paradosso, mentre il sopportare l’ambivalenza ci situa dentro la realtà simbolica dove si percepiscono entrambe le facce contemporaneamente, dove addirittura si esiste come due realtà contemporaneamente. Ciò che non è scisso non ha bisogno di essere ricongiunto; sicché la via dell’ambivalenza aggira gli sforzi dell’Io per attenuare la coniunctio, perché sopportando l’ambivalenza noi ci troviamo direttamente dentro la coniunctio intesa come tensione tra gli opposti. Questa via arriva alla totalità non una metà alla volta, ma partendo già dalla totalità. Certo, è una strada più lenta, l’azione è impacciata, ci attardiamo a gingillarci stupidamente nella mezza luce e nel simbolico. Ma è una via di cui troviamo echi in molte frasi di Lao-Tzu, e specialmente in questa: «Abbassa la luce, diventa tutt’uno con il mondo opaco».
(Immagine: statua romana di Ianus o Giano bifronte.)
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