Uscito in questi giorni nelle sale, POVERE CREATURE! continua a rastrellare i più ambiti riconoscimenti internazionali: dopo il Leone d’Oro come Miglior Film della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, e due Golden Globe come Miglior film e Migliore attrice per Emma Stone (davvero incredibile la sua interpretazione), il capolavoro di Yorgos Lanthimos guadagna 5 premi BAFTA e sbanca 11 Oscar tra cui miglior film, miglior regista, miglior attrice protagonista e miglior sceneggiatura. Anche se il cinema acuto, cinico e favoloso di Lanthimos aveva già affrontato il tema portante dell’opera – la lotta tra femminismo e maschilismo, e tra matriarcato e patriarcato, ad esempio ne “La Favorita” – tuttavia qui il tema raggiunge non solo l’apice dello spettacolo, ma soprattutto il nocciolo d’una verità profonda e archetipica che forse nessun altro nella storia del cinema aveva ancora toccato così schiettamente.
Forse perché i tempi sono maturi per un risveglio della coscienza – della donna ma anche dell’uomo – verso una definitiva accettazione della realtà psicologica che né gli uomini, né le donne ormai da troppo tempo hanno più voluto accettare: quando scopre di portare con sé tutta la metis dell’anima, ovvero quell’intelligenza emotiva e irrazionale, profonda e intuitiva, dovuta alla sua sensibilità rispetto alle energie e alle forze della natura, la donna scopre di incarnare, come diceva Jung, l’archetipo stesso dell’Anima, e la sua potenza nei confronti della società diviene invincibile. Ragion per cui l’uomo da sempre teme il femminile come teme le forze inconsce della natura, quelle che agiscono nella donna e nella natura come quelle che agiscono dentro di sé, nella sua anima femminile. Da qui parte la violenza e la lotta che l’uomo fa verso il femminile dell’Anima, sia che sia espresso nella donna che nell’uomo stesso, fino alla violenza e al possesso che continuamente cerca di operare nei confronti della natura, e in prim’ordine attraverso l’uso smodato della forza fisica, della razionalità e della scienza.
Lanthimos ha costruito genialmente un intreccio di personaggi, luoghi e situazioni neo-gotiche e fanta-surreali per immettere direttamente lo spettatore nella dimensione onirica e crepuscolare dell’Anima, in cui ogni personaggio riveste la sostanza archetipica delle forze psicologiche in atto in questa lotta mitologica per la vita, gli uomini per il possesso e il controllo dell’anima-natura, e le donne per l’individuazione nel mondo e il riscatto del proprio potere attraverso la relazione con gli uomini. Alla fine, anche gli uomini compiono la loro distopica evoluzione: volto alla distruzione, il loro processo d’individuazione è ancor più tragico e allo stesso tempo comico. Ragion per cui il film ambisce a colpire dritto al cuore l’uomo e il tumore razionalista che lo colpisce, come più esplicitamente la donna culturalmente regredita nell’anima a idiot savant.
Bella, la donna-Anima
(attenzione spoiler!)
Già nei film precedenti come “Dogtooth“, “The Lobster” o “Il sacrificio del cervo sacro” Lanthimos aveva portato sullo schermo l’universo distopico moderno in cui gli esseri umani hanno perso il contatto coi propri sentimenti e sembrano capaci esclusivamente di replicare gesti e interpretare ruoli. Stavolta il film ne narra il riscatto attraverso la formazione sentimentale, sessuale e intellettuale di Bella Baxter, giovane donna incinta suicida alla quale lo scienziato Godwin Baxter ha ridato la vita attraverso un complesso esperimento chirurgico: l’impianto del cervello del bambino ancora vivo nella testa della madre di cui era incinta. Le premesse frankenstainiane della storia si caratterizzano però principalmente nell’immagine dello stesso scienziato-padre, altrettanto figlio di un padre-scienziato e prima vittima dei suoi crudeli esperimenti, a significare il volto sfigurato dalle cicatrici e il corpo deturpato e privato proprio di quell’Anima che invece la magnifica Bella incarna. Tanto rinomato e stimato quanto folle nella sua visione totalmente razionale, Godwin porta già nel suo nome (god-win, “il dio che vince” o “il vinto dal dio”) l’ambigua e tragica sorte dell’uomo che pretende di controllare le forze della natura e manipolarla secondo i propri interessi personalistici. Già gli antichi Greci consideravano il peggiore di tutti il peccato di hybris – l’arroganza e la tracotanza dell’uomo che crede di essere un dio e sfida le forze della natura – tale che in essa l’umanità meritava di essere distrutta e veniva inevitabilmente soggetta alla vendetta degli dèi.
Il personaggio di Godwin Baxter rappresenta gli archetipi di Prometeo e di Apollo, nonché dell’uomo scientifico e razionalista, emerso con estrema forza nel mondo post-illuminista e consolidatosi nella nostra attuale cultura scientifica, ma già annunciato profeticamente dalla “morte di Pan” raccontata nel “Tramonto degli oracoli” da Plutarco, ripresa in epoca moderna dal grido “Dio è morto” del filosofo Friedrich Nietzsche, riportato ne “La gaia scienza” e in “Così parlò Zarathustra”. Ed è proprio nella società post-illuminista di Nietzsche, quella neo-vittoriana in cui si ambienta anche il film, che il filosofo ha raccontato la caduta dei valori sacri della vita e della natura nella società moderna, e la contemporanea ascesa del “superuomo” in una tragica era in cui la potenza del singolo uomo e della visione egoica soggettiva si sarebbe imposta sugli altri esseri umani e sulla natura come forza di imposizione violenta della propria volontà razionale e dell’arbitrio del singolo sulla collettività e sulla natura. Prometeo (in greco antico, “colui che prima riflette” ovvero colui che usa la ragione prima del senso) è il titano scaltro e intelligente che rubò il fuoco agli dèi per darlo al genere umano. La sua azione, che avvenne in antitesi a Zeus come rappresentante degli dèi olimpici e quindi da lui punita per l’eternità, è posta ai primordi dell’umanità e rappresenta l’origine della condizione esistenziale dell’uomo. È simbolicamente distinta da un tipo di astuzia e intelligenza differente, la “metis” del dio Ermes, figlio di Zeus che, appena nato nel freddo di una caverna, vede due bastoni e inventa il fuoco sfregandoli tra loro, cioè lo produce in modo naturale e sfruttando un’intelligenza divina.
Metis è il nome che i Greci davano infatti a quella forma di intelligenza astuta che spesso è stata attribuita alle donne. L’intelligenza ermetica e la sua metis sono d’altra parte del tutto contrapposte a quella del dio Apollo, altro figlio di Zeus, che come dio del sole vede e provvede soltanto nel senso dei lumi della ragione. Dio della scienza come ragionamento logico, nel suo modo di vedere e di pensare Apollo segue il principio di non-contraddizione, quello che appartiene anche al metodo scientifico. Secondo Ginette Paris (nel suo libro “Hermes e Dioniso”), il detto “non c’è niente da capire nelle donne” illustra il punto di vista apollineo sulla donna e l’ignoranza di questo punto di vista rispetto la metis femminile, perché il percorso della metis è sinuoso, imprevedibile, sconcertante per coloro che non ne sono provvisti. La metis, sinonimo di prudenza, riflessione, saggezza e intelligenza emotiva, è l’opposto del sapere deduttivo e della logica lineare di Apollo. Essenzialmente intuitiva, è ciò che oggi si chiama “intelligenza della situazione”. È fatta di un sapere interiore, di un’intimità con gli esseri, gli oggetti, gli animali e la natura, e appartiene al pensiero mitico, ossia a un pensiero in cui non si applica la logica della non-contraddizione. Questa è la forma di intelligenza di molte divinità e forze della natura, quale la stessa saggia Metis, inghiottita da Zeus nel suo primo gesto patriarcalista per paura che da lui generasse dei figli più saggi di sé stesso, e poi dai suoi araldi, la stratega guerriera Atena e il messaggero Ermes, che la presero direttamente da Metis; ma anche dalle dee seduttrici come Afrodite, dea dell’amore e della bellezza, Pandora, la strega Medea o la maga Circe. Alcuni eroi umani o semidèi ricevono questo dono dagli dèi, come Ulisse protetto da Atena o Dioniso quando incontra Cibele. La metis è proprio ciò che manca a Godwin e alla maggior parte degli uomini che incontrano Bella, ma ai quali inconsciamente ella impone la propria, portando alcuni alla follìa, altri ancora a un risveglio della propria coscienza nell’anima.
Bella, inizialmente sprovvista di coscienza ma dotata di metis, è la protagonista assoluta del film. Dapprima infantile nell’atteggiamento, nel pensiero e nella postura, ma di aspetto virginalmente affascinante, il primo archetipo che Bella incarna è quello della Core, la “fanciulla senza nome”, o “donna-Anima”. Come Psiche nel mito, il dio Eros se ne innamora perché all’inizio ella è soltanto “bella”, perché è ancora una coscienza femminile puella e vittima dei suoi stessi istinti. Il grottesco e fantascientifico stratagemma attraverso cui Lanthimos definisce le premesse individuative della donna moderna sono quelle stesse dell’anima di una donna resa incosciente di sé stessa per mano della perversione patriarcale e del razionalismo, una bambina moderna come donna moderna resa oggetto ridicolo delle stesse manipolazioni culturali alle quali è soggetta, ma ancora dotata della propria intrinseca metis, simbolicamente rappresentata dal cervello trapiantato del suo stesso figlio. Inconsapevole delle forze che la agiscono, come “donna-Anima” Bella dovrà riscattare la sua identità e la sua coscienza etica attraverso la graduale scoperta dei poteri occulti del femminile. Ne comincerà presto ad acquisire consapevolezza, proprio facendo esperienza di tutto ciò che la circonda e intraprendendo un cammino alla scoperta del mondo e di se stessa. Come la Core greca, è una giovane dea slanciata e bellissima, associata ai simboli della fertilità e della purezza, narcisisticamente incentrata su sé stessa e sull’esperienza soggettiva del mondo. Rapita dall’uomo-Ade e costretta dalla sua violenza all’essere precocemente strappata dalla sua condizione naturale, la Core-Bella riscatterà il proprio femminile attraverso l’individuazione in Persefone, la regina degli Inferi, una donna matura e padrona di sé stessa, che regna sulle anime dei morti, guida i viventi agli Inferi e pretende per sé ciò che vuole.
Al suo fianco, sfilerà tutta una serie di uomini, che Lanthimos propone come precisa e sequenziale caratterizzazione delle possibilità archetipiche dell’uomo. E di come questi poi ecceda nella loro inflazione o deflazione. Primo tra tutti Max McCandles, l’inizialmente apollineo studente di medicina di Baxter, al quale Bella si era promessa, prima di decidere di partire al seguito di Duncan, un avvocato senza scrupoli che inizialmente incarna invece gli archetipi di Ermes e Dioniso, e approfitta dell’ingenuità e dell’illibata bellezza e disponibilità di Bella per proporsi come amante e suo liberatore. Nel cercare di possederla e manipolarla, dal Dioniso avventuriero, amante e amico delle donne, impazzirà di gelosia e dipendenza, mostrando il lato tiranno di Dioniso quando non riconosciuto come dio, e rimarrà diviso e frammentato tra la sua follia e la vendetta del suo alter-ego apollineo. Se, da un lato, infatti, l’amore dionisiaco di Duncan non colma l’insaziabile sete di conoscenza e il bisogno di libertà e indipendenza di Bella, è perché dall’altro questo ha acceso sempre più la sua fame di potere e di bellezza, liberando una femminilità sempre più prorompente e seduttiva, quella della dea Afrodite. Se infatti Core era la “fanciulla senza nome” e rappresentava la giovane che ignora chi sia ed è ancora inconsapevole dei propri desideri o delle proprie forze, Afrodite è l’archetipo che porta la donna all’amore e la inizia alla sessualità e ai misteri dell’eros e dell’amore, attraverso cui raggiungere la consapevolezza e il riscatto della forza e della bellezza della natura.
La giustizia di Bella-Afrodite
La maggior parte delle donne giovani, prima di sposarsi o di decidere della propria carriera, passa per la fase Core, per poi costellare altri femminili. Altre donne rimangono fanciulle per tutta la vita: non si impegnano né in un rapporto, né in un lavoro, né in una meta culturale, e anche se di fatto vivono un rapporto, hanno un lavoro o frequentano l’università, restano in balìa della propria immagine di donna passiva e di quel tipo di seduttività, che inevitabilmente attrae l’uomo che cerca una donna passiva e remissiva su cui svolgere il proprio potere e con cui instaurare un rapporto di esagerata dipendenza. Afrodite, la dea Bellezza, libera la donna nella relazione con l’uomo e nella sessualità, e lo fa attraverso la sua metis. Se le donne Core, qualsiasi cosa stiano facendo, non sembra che la facciano ‘per davvero’, e il loro atteggiamento è quello dell’eterna adolescente, indecisa su ciò che vuole essere ‘da grande’ e in attesa di qualcosa o di qualcuno che trasformi la sua vita, Afrodite invece costella la volontà di vivere la liberazione dei propri istinti femminili creativi nella relazione con l’altro, allo scopo di ingenerare bellezza e ricreare il mondo. Afrodite è una dea alchemica potentissima, in grado di trasformare sagacemente con la propria energia la stessa materia psichica e la propria visione del mondo, portando fino in fondo alla conoscenza delle profondità della coscienza. È l’archetipo dell’amante e della donna innamorata, che seduce e viene sedotta dal mondo e dagli altri. Che sia un uomo, una donna, la propria attività o il mondo, con lei energia, creatività e bellezza sono potenziate nel momento in cui ama, seduce e si offre.
Se inizialmente Bella è come Psiche, la giovane coscienza mortale che seduce il dio Eros con la sua sola bellezza, una volta scoperta la sua potenza divina ella incarna la stessa vendetta di Afrodite contro l’ingenuità e l’ignoranza umana. Ne “La giustizia di Afrodite”, Hillman ci ricorda quali sono i modi della punizione afroditica: lo strumento che la dea usa di più, il più vicino alla sua natura, è la punizione attraverso l’amore. Afrosite si serve del figlio Eros affinché con la sua freccia colpisca la carne dell’anima, così che soffra i terribili implacabili spasmi del desiderio. Un desiderio così appassionato da somigliare a una sofferenza diventa sofferenza: una forma punitiva di sofferenza causata dall’offesa alla dea, da una forma di hybris da parte dell’umano, quella di usurpare e oltraggiare la divinità con la propria superbia e le proprie pretese di moralità e invulnerabilità. La verità che porta la giustizia di Afrodite è che amore e bellezza non hanno moralità, ed è l’uomo stesso ad essere immorale nella sua razionale moralità: l’uomo ha spaccato in due il concetto classico di kalokagathon, bellezza e bontà saldate insieme in una sola parola o concetto, demonizzando la metis del femminile e guardando all’eros e alla bellezza come cattivi, immorali e pericolosi. Afrodite è rimasta intrappolata nel dilemma fondamentale del cristianesimo, che divide la bellezza dalla bontà e dà importanza esclusiva all’ordine morale che ha portato a considerare Afrodite una sabotatrice della morale stessa, una fuorilegge. La dea è diventata una Carmen – dice Hillman -, una tentatrice distruttiva.
È invece nel segno della dea, ovvero per scoprire la propria identità e quella del mondo nella bellezza e nella bontà, che Bella era partita in viaggio con Duncan attraverso l’Europa. Attraverso il viaggio come individuazione e ispirata da Afrodite, Bella inizia a scoprire la bellezza e la complessità del mondo dentro e fuori di sé. Da Lisbona, dove viene introdotta alla filosofia, a Parigi che la vede lavorare in un bordello ed esplorare appieno la propria sessualità, fino ad Alessandria d’Egitto, città in cui scopre l’esistenza della povertà e delle disparità sociali, il viaggio viene però interrotto da una lettera del suo primo manipolatore: il dottor Godwin Baxter sta morendo e desidera avere Bella al suo fianco prima della morte nonostante il litigio avvenuto tra i due prima della partenza. Godwin sta morendo per un tumore, simbolo del male che ha segnato la sua stessa carne e che lo sta individuando alla scoperta del senso della vita e del suo più grande rimosso: la stessa Anima-Bella (“Bella” ora rimarca proprio “Bellezza” come Afrodite) e la dimensione femminile dell’amore e del sentimento. Il ritorno di Bella non rappresenta però per lei la fine delle proprie avventure alla scoperta del proprio femminile, ma soltanto una necessaria stazione: quella del ritorno al patriarcato con una nuova coscienza femminile.
Quando Bella torna a casa a Londra, scopre che Godwin ha creato un’altra creatura – sempre donna nell’aspetto ma dai comportamenti infantili – di nome Felicity. Simbolicamente, Godwin cerca di riprodurre la felicità che gli ha dato Bella, l’anima-Afrodite, ma Felicity non è nata da un amore per la scienza o per la vita, e si rivela ricettacolo della manipolazione che la coscienza umana cerca di fare dell’amore: una donna-oggetto senza metis, priva di coscienza e di anima. Riconoscendosi in ciò che anche lei era stata inizialmente, e riconoscendo in essa la bruttezza, la spietatezza e la vera immoralità della razionalità umana, la nostra protagonista interroga Godwin, che finalmente le rivela le strane circostanze della sua origine: lo scienziato aveva infatti recuperato il corpo di una donna appena morta suicida e le aveva impiantato nel cranio il cervello del feto ancora vivo che portava in grembo. In questo modo, pur essendo già formata nel corpo, Bella aveva dovuto compiere un processo di crescita intellettuale e spirituale, ripercorrendo tutte le fasi dello sviluppo ma con l’opportunità di cambiare il suo destino patriarcale e percorrere il processo di individuazione del femminile nel mondo fino in fondo.
Riappacificatasi con lo scienziato, seppur non condividendo la sua hybris, Bella acconsente anche di sposare Max McCandles, studente di medicina di Baxter al quale la nostra protagonista si era promessa prima di partire. Le nozze vengono però interrotte da un ospite inaspettato: Duncan ha infatti, per vendetta, rintracciato il marito di Bella, ovvero l’uomo che era sposato con la donna prima che questa decidesse di suicidarsi, il generale Alfie Blessington. Incuriosita da questo nuovo scenario e decisa a scoprire la verità sulla sua vita passata – ma probabilmente anche insofferente al pensiero di un’intera vita con Max –, Bella decide di seguire Alfie e trasferirsi nel suo palazzo, attingendo ancora una volta alla metis femminile e abbandonando quindi il suo promesso sposo sull’altare. A casa di Alfie, però, Bella capisce ben presto il motivo del suo tragico gesto. Prima di essere riportata in vita da Baxter, infatti, si chiamava Victoria Blessington, ed era una donna ricca e viziata, che trascorreva le giornate confinata nelle quattro mura del palazzo ad escogitare, insieme al marito, delle crudeltà ai danni dei domestici. Era, cioè, la degenerazione della donna che sposa i valori del patriarcato, come se ne vedono sempre più in giro nel mondo, coloro che hanno fallito il femminismo credendo che la libertà sessuale venisse dal poter fare ciò che fanno gli uomini e dall’avere soltanto i loro stessi diritti.
La gravidanza, però, l’aveva cambiata e, sentendosi in trappola e oppressa dal carattere tirannico del marito, aveva preferito togliersi la vita piuttosto che essere condannata a un’esistenza d’infelicità. Scoperte queste informazioni sul proprio passato, Bella decide di voler lasciare la dimora di Alfie, ma quest’ultimo glielo impedisce. Non solo: l’uomo chiede al suo medico personale di praticare a Bella una mutilazione genitale in modo da sopprimere la sessualità dirompente della donna. Ecco un altro uomo che cerca di fermare e possedere l’Anima e il potere della donna con l’uso della ragione unito a quello della violenza. Sotto la minaccia della pistola, Alfie tenta di convincere bella a bere una bevanda al cloroformio ma, sempre usando la sua metis, Bella getta il drink soporifero in faccia al marito, che sviene sparandosi a un piede. La sua giustizia ha quasi raggiunto il suo apice spirituale, mentre Bella si fa sempre più fredda, lucida e determinata.
Bella-Persefone, la regina delle anime
Il binomio amore-morte ci porta direttamente a svelare il dualismo delle polarità archetipiche della Bellezza del femminile: l’altra faccia di Afrodite è infatti Persefone, la Core diventata Regina degli inferi. Attraverso il lutto e la sofferenza, attraverso la manipolazione dell’uomo-Ade, Bella si trova a conoscere le profondità più oscure dell’anima e a riconoscere il significato della vita, della morte e della rinascita e rigenerazione, ciò che anticamente era l’oggetto del culto dei Misteri Eleusini, sacri a Persefone e Demetra. Non a caso la prima rinascita di Bella comincia nella sua prima vita e durante la gravidanza: l’archetipo di Core-Persefone è inscindibilmente legato a quello della madre Demetra, perché è nello scoprire il segreto della potenza del proprio materno che la donna puella scopre lo status di mater naturae e la sua relazione con l’anima mundi. Se Afrodite è la dea Bellezza e Amore della natura “di sopra”, nella dimensione orizzontale della natura così come si manifesta sotto la luce del sole e sopra la terra, Persefone è l’equivalente complementare del “mondo di sotto” e notturno, la dimensione dell’interiorità invisibile e verticale dell’anima, che va dal regno delle anime a quello degli spiriti.
Nel finale del film, Bella fa ritorno a casa di Baxter trascinandosi dietro Alfie, privo di sensi, ed esegue su di lui – con grande maestria – il medesimo intervento chirurgico eseguito tempo prima dal suo creatore: questa volta, però, sostituisce il cervello dell’uomo non con quello di un altro essere umano, ma con quello di una capra. La giustizia di Afrodite diventa la giustizia di Persefone e Demetra, quella spirituale che porta alla casa, alla famiglia, alla fertilità e alla procreazione. Vediamo Baxter morire pacificamente, e Bella prendere possesso come una regina della sua abitazione insieme a Toinette (sua amica del bordello di Parigi), Max – che dall’impostazione apollinea di partenza ha ora riscattato il suo sentimento e la sua metis, e così tornato in ottimi rapporti con Bella –, la nuova creatura Felicity, che grazie all’amore sembra fare miglioramenti, e la capra-Alfie, che bruca allegramente nel giardino di casa nel giusto destino che gli spetta – ma “povera creatura!” quella capretta! Anche se non ci viene mostrato quello che sarà il suo futuro, durante le ultime battute del film Bella prende la decisione di voler diventare un medico e di farsi carico dell’eredità di Baxter, studiando chirurgia e prendendo in mano il suo laboratorio insieme a Max. Una decisione tipica della donna-Persefone, colei che eredita la conoscenza dei segreti della vita e della morte dopo aver mangiato il frutto erotico della violenza subita, colei che nell’Ade in cui era stata trascinata si fa Regina accettando il proprio fato ed emancipandosi attraverso di esso.
La decisione di Bella era probabilmente già maturata anche nel corso del suo viaggio, quando la donna aveva visto con i propri occhi gli orrori dell’umanità e aveva desiderato con tutte le proprie forze di poter dare una mano. Simbolicamente, il mondo degli inferi rappresenta gli strati più profondi della psiche, l’inconscio e la memoria del passato, le sofferenze e la ricchezza acquisita attraverso il loro significato. Persefone come regina e guida agli inferi è la “guaritrice ferita”, la donna sciamanica che può muoversi tra i mondi, colei che trasforma il suo viaggio in arte, poesia o cura. Donne che sono state prigioniere del patriarcato o della propria infelice condizione, donne che attraversano la depressione o la pazzia e ne escono rinate, hanno in sé l’archetipo Core che porta a quello di Persefone. Una donna che costella Persefone è colei che è riuscita a rimanere leggera, nonostante la profonda capacità di analisi, che ha coltivato il proprio intuito sviluppando la propria ricettività e intelligenza in modo consapevole, utilizzandola come dono e non solo come arma. È una donna che ha imparato ad evolvere, senza trasfigurarsi nell’immagine di qualcos’altro, ed è rimasta in contatto con la propria bambina interiore, di cui è riuscita a prendersi cura divenendo madre di se stessa.
Sommando la sua vocazione alla bellezza e all’amore, per la conoscenza dei segreti della vita e della morte e all’innato talento per il bisturi che dimostra nel finale del film, è auspicabile che nel futuro della nostra protagonista – come della donna femminista – ci sia una brillante e persefonina carriera nel mondo, degna di colei che ora dispenserà vita e bellezza secondo il suo lógos profondo. Da questa donna, come dalla visione di questo geniale film, l’uomo estremamente razionale e moralista non può altro che uscirne devastato, oppure scosso nella coscienza e trasformato, perché dovrà per forza riconoscere i limiti del non riconoscere la metis e la bellezza in primis del suo stesso femminile psichico: quella “donna” che, come diceva Jung, giace nascosta dentro ogni uomo, e che ogni giorno è vittima della violenza che l’uomo fa prima di tutto su sé stesso rimuovendo il proprio femminile e la propria anima.
Diòniso: il maschile che salva dal maschilismo
Nella lotta tra matriarcato e patriarcato, i personaggi maschili del film sono anch’essi delle “povere creature”, anzitutto perché destinati all’auto-distruzione. Affetti da un razionalismo patologico, come dall’inflazione degli archetipi di Apollo e Zeus, oppure privi di metis e incapaci di reagire alla fascinazione dell’Anima e alle sue spontanee manifestazioni incoerenza e ambivalenza se non con esplosioni di rabbia e violenza. Non c’è un maschile di tipo Ermes a fornire all’uomo una metis in grado di sopportare l’ambiguità del mondo e dell’Anima, e di vedere la sua bellezza nell’unione degli opposti; non c’è un Diòniso attivo e funzionale a portare quel maschile congiunto al femminile nel sentimento e nel gioco. Nell’uomo che ha puntato tutto su una moralità della coerenza luminosa a tutti i costi, che ha rimosso i suoi istinti e il suo grido di libertà di espressione, che si è rifiutato di uscire periodicamente dai binari per considerare valida solo la temperanza, è costante il rischio dell’irruzione improvvisa di Ermes, Diòniso e Pan come di tutta la spietatezza, la violenza, il materialismo e la follia rinnegate. Questo tipo di persona – uomo o donna che sia – diviene mossa principalmente dall’arrivismo e dalla competizione, dal desiderio di possesso e dall’ossessione per la rettitudine, che poi puntualmente si trova a dover infrangere senza spesso nemmeno accorgersene. Gli unici modi che la persona inflazionata nella morale trova per affermare sé stessa sono l’ostentazione della forza fisica e l’imposizione della propria volontà, se non attraverso il raggiro, attraverso la violenza. Anche Bella, come abbiamo visto, nella sua vita precedente era finita a comportarsi in questo modo, passando le sue giornate a divertirsi con giochi violenti e a raggirare la servitù, odiando persino la creatura che portava in grembo. Ciò accade anche a molte donne femministe, che credono che per combattere la violenza del maschilismo sia necessaria altrettanta violenza, o che senza accorgersene finiscono per ambire al potere patriarcale copiando lo stile e i modi di affermazione di sé maschilisti, come alzare le voce e imporre violentemente le proprie ragioni, o portando una visione unilaterale dei problemi e degli argomenti in discussione.
Nel film però non tutti gli uomini sembrano condividere fino in fondo i valori del patriarcato. Max è quello che tra tutti dimostra di essere ancora sensibile alla bellezza dell’Anima e della natura, senza subirne una possessione inconscia ma agendo in linea con i propri sentimenti. Una cosa, infatti, è mettersi in contatto con la propria emotività e irrazionalità, un’altra è diventare folli. A differenza degli altri, sembra avere intelligenza emotiva e sensitiva, o almeno la scopre durante il tutoraggio di Bella e assieme all’amore. Il suo innamoramento non è la follia di Diòniso, quella che porta a impazzire l’uomo che, come Duncan, ha una fame insaziabile di emozioni e di situazioni intense perché non si concede di viverle quotidianamente a causa della propria inflazionata moralità. Questa fame, infatti, è paragonabile al craving e tende a instaurare relazioni tossiche o di esagerata dipendenza emotiva, e perlopiù porta all’esatto contrario di ciò che si cerca: ci si distacca, si diventa freddi, non si sente più niente in loro presenza. La maggior parte degli uomini che ad esempio soffre di problemi di erezione, come delle donne frigide o anorgasmiche, conduce senza accorgersene una vita relazionale alienata dal coinvolgimento emotivo con l’altro, oppure al contrario è ossessionato dalla sua risposta emotiva e pertanto mantiene un distacco dal proprio corpo. Max, invece, si concede di vivere le situazioni emotivamente e sentimentalmente coinvolgenti, cioè accetta il proprio Diòniso, il dio liberatore del sentimento e dell’irrazionalità.
Per le donne, Diòniso è il dio che le libera dalla schiavitù e dalle catene del patriarcalismo. Scrive su di lui Ginette Paris: “Come il rivoluzionario che recluta i suoi compagni fra quelli che non hanno niente da perdere, Diòniso recluta le sue mènadi tra le donne che non ne possono più della prigionia domestica, cieche a ogni considerazione diversa dall’opportunità di potere finalmente evadere. Esse diventano delle donne selvagge che infrangono le loro catene per seguire Dioniso il Liberatore”. Si desidera Dioniso non solo quando siamo costretti in casa, o sfiancati dal lavoro, o quando la prospettiva di cambiare carriera è tetra. Diòniso è l’antidoto contro la monotonia e in genere contro qualsiasi condizione di fissità che giorno dopo giorno uccide la nostra anima. Essendo lui stesso zoé, ovvero l’energia della natura e il suo flusso vitale che scorre, questa forza della psiche è in grado di liberarci da ogni mònos in cui ricadiamo nel nostro io. Con il rischio, chiaramente se si esagera a indurselo con droghe e alcool ovvero volgarmente e materialisticamente, di frammentarlo e distruggerlo.
“L’accanimento con cui il cristianesimo ha cercato di eliminare Dioniso ci ha messi in un atteggiamento difensivo verso ogni distruttività dionisiaca, in quanto contraria allo stabilirsi dell’ortodossia”. Nel monoteismo – come in qualsiasi forma di visione unilaterale dell’io ovvero ogni volta che non vogliamo o riusciamo a vedere le cose se non da un solo punto di vista fisso – c’è opposizione tra ortodossia (da orthós, diritto, e dóxa, opinione) ed eterodossia (heteros, altro, diverso). I cristiani hanno iniziato – e noi continuiamo a tutt’oggi nel post-cristianesimo – a contrapporre coloro che pensano “rettamente” a quelli che pensano “diversamente”. L’opposizione tra la rettitudine e il pensiero divergente lascia intendere che se non si pensa secondo l’ortodossia, si pensa in maniera distorta e sbagliata. Per i pagani, invece, l’opposizione più naturale non era quella tra chi pensa in maniera retta e chi pensa in maniera diversa, ma tra eterodossia ed omodossia (accordo, somiglianza di pensiero): c’erano quelli che pensavano in un modo e quelli che pensavano in un altro modo, mentre quelli come Diòniso introducevano l’eterodossia, ovvero la differenza. La femminista Simòne de Beauvoir ha dimostrato e caldeggiato l’urgenza per le donne di ripensare la questione della differenza, affinché la smettiamo un pò tutti quanti di percepirci più o meno coscientemente come una deviazione in rapporto all’ortodossia maschile. La stessa psicologia e psichiatria ancora sottostanno a una generale revisione filosofica di cosa è da considerare retto o “normale” e di cosa non, e questa revisione ha portato a importanti rivoluzioni ideologiche e concettuali, ad esempio, con l’abolizione del termine e del concetto di “devianza” o “deviazione” e la generale accettazione che “diversità” significhi ricchezza e libertà di espressione della propria anima.
Come Bella, la donna scopre la vita nel momento in cui scopre il suo corpo – ma anche all’uomo è dato questo compito come destino. Afrodite ci porta alla sua rivelazione, Diòniso alla sua liberazione. Esplorando il proprio corpo – come Bella fa sin da “piccola” – non dev’essere affatto inquietante, è anzi il modo principale attraverso cui qualsiasi creatura scopre sé stessa. Tuttavia, ciò è possibile soltanto quando è libera da qualsiasi condizione. L’imbarazzo, il giudizio degli altri, la morale, la religione monoteista, le concezioni generaste, gli stereotipi sociali, sono tra i maggiori condizionamenti che troviamo a impedimento di una libera espressione della nostra anima nel mondo. Bella vuole tutto, prova tutto, assaggia tutto, segue senza pensarci le curiosità e le sensazioni, vive completamente immersa nell’intuizione sensibile della sua anima e trova la sua strada proprio perché guidata da essa. Dioniso, il dio morto e rinato, ci guida verso la morte dell’io moralista lateralizzato, e a una rinascita nela liberazione dai dogmi e dai pregiudizi attraverso la riscoperta delle profondità dell’anima e dell’Ade. Dolore, traumi e sofferenza attraverso Dioniso sono la nostra oscurità che torna a far parte della nostra vita come energia insostituibile da cui scaturisce il piacere della vita stessa nella consapevolezza del significato stesso della vita in ogni sua dimensione. Il messaggio centrale veicolato da Lanthimos è che dobbiamo recuperare il nostro naturale modo di vivere dionisiacamente la vita, e nel film viene così detto in maniera esplicita:
Dobbiamo sperimentare ogni cosa, non solo il bene, ma anche il degrado, l’orrore, la tristezza. Così possiamo conoscere il mondo. E quando conosciamo il mondo, allora il mondo è nostro.
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