La psicologia archetipica è un movimento culturale innovativo che si è posto il compito di giungere a una ‛revisione’ della psicologia, della psicopatologia e della psicoterapia. È quindi una nuova psicologia, evolutasi dalla psicologia analitica di Carl Gustav Jung, il più grande psichiatra della storia, e trova una sua concettualizzazione e la sua massima espressione grazie a James Hillman, geniale erede di Jung e grande critico della cultura e del mondo contemporaneo. Seguendo Hillman, la Psicologia Archetipica affonda le radici all’interno della cultura europea mediterranea e mediorientale, la culla della nostra civiltà e del nostro patrimonio genetico e culturale, e in particolare nel pensiero di filosofi della Grecia antica come Platone, Eraclito, Proclo, Plotino, e negli apologeti dell’età classica come Giambattista Vico e Marsilio Ficino, passando per il pensiero rinascimentale e in continuo confronto con quello arabo e persiano di Avicenna, Ibn ‘Arabi e Sohrawardi. Hillman individua in Carl Gustav Jung ed Henry Corbin i due padri della Psicologia Archetipica in quanto coloro che hanno recentemente saputo recuperare e sincretizzare le basi più profonde della psicologia, ovvero della Psicologia del Profondo. Vediamo di che si tratta.
Avrete senz’altro sentito nominare la parola “inconscio”: Sigmund Freud, il nonno della psicoanalisi, lo riscoprì nei lapsus e nei sogni dei suoi pazienti, ed usò questo termine per indicare tutto ciò che nelle persone in qualche modo “parla” o succede spontaneamente” perché avviene dentro di noi senza che ne siamo coscienti. Tuttavia Jung ci fece capire che Freud commise quello che oggi potremmo dire un errore di “ego-centrismo” nel concepire l’inconscio non come l’origine di ogni vissuto emotivo e di ogni nostro comportamento, ma come il prodotto o la conseguenza della coscienza, cioè dell’io, che è messo al centro di ciascun individuo laddove l’inconscio costituirebbe invece tutto ciò che la coscienza non accetta: secondo Freud noi “rimuoviamo” pensieri bizzarri, traumi e aspetti di noi imbarazzanti e indesiderati, rimuovendoli dalla nostra attenzione cosciente proprio perché non vogliamo vederli. Jung, suo successore, invece dimostrò nella sua grande opera che l’inconscio non è il nostro personale “dimenticatoio” come invece pensava Freud, ma che prima di tutto noi siamo immersi nella nostra vita inconscia e siamo da essa dipendenti, per cui la coscienza è solo un minuscolo frammento del nostro inconscio a cui prestiamo di volta in volta attenzione, e che l’inconscio personale è costantemente connesso a quello degli altri esseri umani, nonché alla natura e al mondo in cui viviamo, ovvero a ciò che egli chiamò INCONSCIO COLLETTIVO.
Partendo da queste premesse, James Hillman ha riportato al centro della psicologia moderna un’idea antica e universale, troppo a lungo censurata negli ultimi secoli: l’idea di ANIMA. Secondo Hillman, tutte le malattie mentali, così come il disagio e la sofferenza psicologica, ma anche le malattie del corpo e della società in cui viviamo, sono malattie dell’anima. Ma che cos’è l’anima? Ecco, l’anima, in greco psyke, è il soffio vitale, l’essenza energetica della vita stessa, che potremmo rappresentare come l’attività dei neuroni e delle cellule del nostro corpo, ma anche come le immagini e le rappresentazioni della vita e dell’attività biologica complessa, per cui ogni cosa del mondo possiede un’anima nella misura in cui questa cosa è in connessione e in collegamento attivo con le altre e con il nostro inconscio personale attraverso l’inconscio collettivo.
Intorno a quest’idea, Hillman ha ricostruito il sistema di pensiero dell’uomo, mettendo le basi anche per un sistema di cura collettiva dai mali che affliggono l’umanità moderna, che non riconosce e non accetta più l’anima delle persone e del mondo: pensiamo all’ingiustizia sociale e politica, al declino della religione in quanto legame innato dell’uomo col mondo, alla distruzione ecologica, all’alienazione sociale e culturale. Sono tutti mali dell’anima, ovvero drammi personali collegati ai mali della collettività, che costringono l’individuo ad allontanarsi dai bisogni della propria anima e allo stesso tempo a non riconoscere l’anima degli altri e delle cose del mondo, ovvero il loro SIGNIFICATO. E’ una crisi di significati quella in cui viviamo oggi, quella crisi di cui parla spesso anche l’ultimo grande filosofo contemporaneo Umberto Galimberti: a questa crisi sono collegate le grandi patologie emerse nei tempi contemporanei, pensiamo alla depressione, al narcisismo, all’ansia e al disturbo di panico, ai problemi sessuali. La psicologia archetipica di Hillman ha finalmente riunito la psyke, l’anima dell’uomo con tutti i modi della sua espressione, come le arti, la cultura, la storia della società e delle religioni, le quali traggono tutte origine dalla nostra IMMAGINAZIONE, ovvero dalla nostra innata capacità di produrre immagini simboliche o archetipi.
COSA SONO GLI ARCHETIPI?
Si chiama psicologia archetipica perché è una psicologia degli ARCHETIPI, che sono le forme primarie o modelli che governano la nostra psiche. Questi modelli sono comuni a tutta l’umanità, e si manifestano anche nella dimensione fisica, sociale, linguistica, estetica e spirituale, sottoforma di simboli e immagini mentali. Questi sono archetipi o IMMAGINI ARCHETIPICHE e rappresentano i modelli orgininari con cui si è costruita la psiche dell’uomo, e sono dappertutto: quando osserviamo un cerchio, un quadrato, un triangolo ecc. noi stiamo osservando degli archetipi, ma anche quando vediamo un albero, una mela, una casa, un fiume, il mare, il sole, la luna e i pianeti, tutte le immagini della nostra natura e del mondo in cui viviamo sono immagini archetipiche, perché racchiudono in sé una serie di significati che ci appartengono e che danno senso al nostro modo di essere e di pensare. Perciò, anche il padre, la madre, il fratello e la sorella, il partner e ogni specifica figura umana, così come gli animali, sono tutte immagini archetipiche che compaiono nei nostri pensieri così come nei nostri sogni notturni, e rappresentano altrettante funzioni psicologiche.
Gli archetipi sono quindi il linguaggio simbolico attraverso cui la nostra psiche parla e manifesta i suoi bisogni: attraverso le immagini che produce, l’anima si rappresenta e mostra il suo specifico destino, che è una sorta di nostro codice genetico psicologico a cui tendiamo continuamente. Attenzione, se gli archetipi sono forme simboliche comuni a tutti, questo non significa che tutti pensiamo allo stesso modo ed abbiamo gli stessi bisogni: ogni immagine archetipica che produce la nostra psiche è una “forma vuota” che appartiene all’inconscio collettivo, poi ciascun individuo “riempie” questa forma con un certo “contenuto affettivo” caratteristico del suo inconscio personale, quindi per lui e solo per lui quell’immagine archetipica acquisterà un significato speciale, come un valore etico-sociale in cui il soggetto crede e da cui egli sarà condizionato, nella realizzazione dei suoi progetti di vita o semplicemente nel suo quotidiano modo di essere o comportarsi.
Ognuno di noi collega continuamente le immagini di ciò che vive e ricorda al significato di ciò che osserva sul suo cammino, e vi è come un dialogo costante delle immagini contenute nella psiche con le immagini che vediamo intorno. Ma ciò che io osservo è fatto di archetipi così come io lo vivo e lo percepisco, ed è in questo modo che l’anima di una persona in un certo senso “cerca” il significato che quella stessa persona ha bisogno di conoscere, spingendola verso quelle immagini e quelle persone che glielo porteranno. Hillman ha chiamato “daimon” questa funzione-guida dell’anima di ciascuna persona, rifacendosi al mito di Er narrato da Platone. Secondo Hillman, ogni persona porta con sé nell’anima un carattere unico e specifico, che descrive una speciale vocazione, e che lo porterà al particolare destino della sua anima, perché il suo daimon interiore, nel bene e nel male, lo spingerà sempre verso di esso.
COME VENGONO UTILIZZATI GLI ARCHETIPI IN PSICOTERAPIA?
Le immagini archetipiche vengono continuamente prodotte e utilizzate da qualsiasi individuo e guidano il nostro comportamento in ogni momento. Tuttavia la non consapevolezza del significato racchiuso nelle immagini che ci dominano e che condizionano fortemente il nostro comportamento, puo’ portarci lontano dalla realizzazione dei bisogni della nostra anima, nonché alla sua sofferenza. Nella pratica clinica, ciò che noi psicologi archetipici facciamo è ricondurre le immagini contenute nei pensieri e nelle parole del paziente al loro significato archetipico originario. Ciò ad esempio accade quando il paziente parla e racconta se stesso, i suoi accadimenti o i sogni che ha fatto: restituendo al paziente le immagini archetipiche contenute nel suo racconto, lo re-introduciamo al significato simbolico che esse presentano. Qui succede spesso che il paziente inizia già da subito a ricollegarvi gli eventi della sua vita e i suoi vissuti in un nesso di SINCRONICITÀ, cioè traendone spiegazioni utili per capire egli stesso il nesso di significato tra gli eventi a sé esterni (i fatti che gli accandono intorno, il comportamento degli altri, ecc.) e i vissuti affettivi interni (i propri ricordi, le proprie reazioni, il proprio comportamento, ecc.) che lo dominano e lo fanno soffrire. In questo modo, il paziente viene pian piano rieducato “a se stesso” e ritira le proprie proiezioni dal mondo esterno riconducendole alle sue immagini cioè a se stesso: in poche parole, egli capisce che l’origine e la causa della propria sofferenza non è negli altri ma deriva da sé stesso e dai propri immaginari archetipici, quindi inizia ad utilizzare gli archetipi in modo autonomo nella propria vita quotidiana per reimmaginare la propria esistenza in modo proattivo al cambiamento che la propria anima gli “chiede” di adottare per individuarsi nella vita e integrarsi nella società.
Ad esempio, una persona di mezza età mi riportò il fatto che si era recentemente schiantata con l’automobile, di notte, su un albero. Analizzandone l’immagine, gli introdussi il significato archetipico dell’albero: l’albero è elevazione e al tempo stesso radici e radicamento, quindi un simbolo della famiglia, l’albero è simbolo stesso della vita e dell’eterna rigenerazione, l’albero ci invita a riscoprire le sue radici e le sue profondità nella terra, e al tempo stesso il suo tronco e i suoi rami crescono e abbracciano il cielo e si forgiano, come il carattere, nel vento e nelle intemperie, e così via dicendo. Questa che sto facendo adesso sull’albero, in particolare, si chiama AMPLIFICAZIONE, ed è una tecnica che permette al soggetto di accedere ai significati archetipici dell’immagine simbolica, cioè ad entrare in connessione all’incoscio collettivo. La persona in questione iniziò immediatamente a collegare i significati simbolici dell’immagine dell’albero con altre circostanze della sua vita, e disse che si era “sradicata” dalla “famiglia”, che era ora che “abbracciasse” e prendesse in mano la propria “vita“, e le azioni che senza pensarci aveva compiuto fino a portarla a sbattere su quell’albero erano simboliche del fatto che stava sempre con la testa per aria e si sentiva senza radici, che alto e basso in lei erano disconnessi, e così via. Iniziò anche ad elencare una serie di altri avvenimenti che coincidevano con la presenza reale o metaforica di alberi particolari, e che improvvisamente le facevano capire ciò di cui aveva bisogno.
Questo è solo un esempio, ma in pratica ogni immagine che ci colpisce o da cui noi siamo colpiti, ogni cosa che ci succede o che facciamo succedere, è costituita da immagini archetipiche che racchiudono il significato di ciò che ci sta succedendo: difatti siamo noi stessi a farle succedere in quel certo modo. E’ in questo ordine implicito, interiore e inconscio, che la nostra vita esteriore e cosciente prende forma e significato, e va avanti ogni giorno con o senza di esso. Per cui, se vogliamo capire quale sia l’origine e il destino di un sintomo o di un nostro disagio, possiamo andare a vedere qual è il significato delle immagini della psiche che esso rappresenta.
In questa prospettiva, la psicologia archetipica parla il linguaggio dell’anima, ovvero il linguaggio di tutte le immagini archetipiche che costituiscono l’essenza vitale di una persona. La psiche è unita al corpo e alle funzioni della mente, e insieme costituiscono un’entità unica. Tutto ciò che accade nel corpo è immagine simbolica della psiche, e in questo modo anche ogni sintomo corporeo, da un prurito o un mal di testa fino a un attacco di panico o una fobia, puo’ essere letto come un simbolo o una immagine della psiche, la cui amplificazione conduce alla comprensione e al trattamento del disagio psicologico sotteso, come nella medicina psicosomatica.
DAGLI ARCHETIPI AL SIGNIFICATO DI UN SINTOMO O DI UN PROBLEMA PSICOLOGICO
Il significato terapeutico degli archetipi viene da tempo immemore raccontato nei miti, nelle tragedie e nelle storie degli eroi, perciò raccontando storie noi diamo al paziente la possibilità di ri-vedere la sua storia e di re-immaginarla secondo quei significati archetipici universali che hanno formato la psiche stessa nella storia dell’uomo. Già raccontare la nostra stessa storia è una cura per l’anima, perché mentre rivediamo nel racconto le immagini della nostra vita con il supporto di un analista, noi possiamo accedere con la coscienza ai significati di quelle immagini e ricollegarle al nostro vissuto personale, che era rimasto dissociato e che ora improvvisamente prende la sua forma in una storia con un senso costruttivo. In questo modo l’anima ha “parlato”, e abbiamo ascoltato ciò che aveva da dire, per cui il paziente ora diventa consapevole della sua condizione e di ciò che ha portato al suo comportamento e al suo disagio, e questa attribuzione di significato viene fatta dal paziente stesso in base al suo vissuto emotivo, e non attraverso una diagnosi che segue un modello o un protocollo come fosse una ricetta valida per tutti, proprio perché ogni persona è diversa dall’altra, e l’anima di uno ha un bisogno e un destino diverso da quelli di un altro.
Nella terapia archetipica, è possibile recuperare il significato delle immagini e dei bisogni di ciascun paziente attingendo, per esempio, alla mitologia, che era la psicologia dell’uomo antico. Nelle storie della mitologia greca e romana, gli dèi e gli eroi avevano specifici ruoli, compiti e caratteristiche, e affrontavano prove complicate che, per gli antichi, erano la trasposizione diretta delle caratteristiche umane e delle condizioni e delle prove che l’uomo doveva affrontare nella sua vita. La CAPACITÀ MITOPOIETICA, cioè di raccontare storie e miti, è una caratteristica innata dell’uomo che in qualche modo serve per capire il ruolo e il compito che abbiamo in ciascuna fase nella nostra vita. Per Freud, queste storie offrivano una chiara dimostrazione dei conflitti inconsci che ad esempio bambini e adolescenti devono attraversare per giungere alla piena maturità, pensiamo alla storia di Edipo su cui egli costruì la sua teoria dello sviluppo della sessualità. Jung studiò approfonditamente i miti e le religioni, li collegò all’alchimia e all’astrologia e capì che ciascun dio o eroe dell’antichità è un archetipo e funge da simulacro delle funzioni mentali della psiche umana. Hillman propose un vero e proprio ritorno alla nostra “Grecia interiore”, ovvero al politeismo psichico, per cui uno dei compiti principali dello psicologo archetipico è quello di riconoscere nel racconto del paziente quali sono le “divinità” o le figure mitologiche che, come immagini archetipiche che hanno formato la psiche umana, stanno agendo in lui in quel momento.
Mi spiego meglio: se esiste una dèa Atena è perché l’uomo in essa ha rappresentato la saggezza, l’abilità di pensiero, la lucidità e la precisione, l’audacia con cui si lotta con le proprie ragioni, ecc; se esiste una dèa Afrodite, è perché in essa l’uomo antico si è rappresentato nel suo bisogno di bellezza e nel desiderio amoroso, ecc.; se esiste un dio Ares è perché in esso l’uomo si è rappresentato nella sua aggressività e nella sua lotta per il predominio, e così via. Oggi possiamo partire da queste rappresentazioni archetipiche per descrivere quali sono i modelli attivi nella psiche del paziente e che ne stanno condizionando rovinosamente il comportamento. Fin qui è arrivata anche la psicologia dinamica con i suoi teorici e i suoi modelli; ciò di cui questa però manca, in psicoterapia, è della capacità di re-immaginarsi e ri-raccontarsi che la psicologia archetipica offre al paziente attraverso i miti, perché il paziente difficilmente capisce qualcosa di se stesso dalle diagnosi e dalle definizioni teniche che il dotto psicologo moderno tende a riportargli dalla sua analisi. L’innata capacità mitopoietica comune a tutti gli esseri umani viene invece, da sempre, utilizzata per conoscere se stessi e raccontarsi: perché abbiamo smesso di usarla in psicologia? Perché l’uomo contemporaneo ha eliminato l’anima dai suoi modelli, per cui ogni psicopatologia viene riconodotta a un trauma infantile o a un problema neurologico.
Poiché nel mondo moderno l’uomo non è più in connessione con la divinità e con la natura, cioè con la propria vita inconscia, allora (dice Hillman) “gli dèi sono diventati le malattie”: significa che la psicopatologia, quella riportata nei manuali diagnostici, è quindi il modo che l’anima trova oggi per poter esprimere un bisogno caratteristico e autonomo rimasto inespresso, e ammalarsi è il modo moderno per entrare in relazione con i propri dèi interiori. Raccontando al paziente la storia della divinità o dell’eroe che lo agisce, e amplificando il significato di questi miti, il paziente diventa consapevole del proprio vissuto psicologico, del compito evolutivo e delle prove che deve assolvere per poter compiere il proprio destino e diventare ciò che deve.
In altri termini, parliamo qui del cambiamento che egli deve attuare per poter uscire dal suo stato di sofferenza e raggiungere la massima espressione di se stesso. Faccio l’esempio del semplice mal di testa che riferisce il paziente: essendo ogni sintomo un messaggio della psiche che racchiude un compito da assolvere, per capire di quale messaggio e quale compito si tratta possiamo fare riferimento alla mitologia greca, dove troviamo la storia del fortissimo mal di testa che venne a Zeus che, grazie all’aiuto del fratello Efesto, riuscì a interrompere facendosi spaccare con un’ascia il suo cranio immortale, e dalla ferita uscì Atena, la dea della saggezza, che perciò nacque dal mal di testa di Zeus, già vestita con scudo e lancia poiché era una dea lucida e guerriera. Nel racconto di questo mito già intravediamo quale sia il “telos”, cioè la direzione, il destino del mal di testa del nostro paziente: per esempio, potrebbe essere una saggezza che deve uscire fuori dalla testa, cioè un nuovo modo di pensare più lucido e preciso. Questo non significa che ogni mal di testa vada interpretato sempre allo stesso modo: sarà infatti il paziente stesso ad usare il racconto del mito in modo sincronicistico per creare nessi di senso e significato, arrivando a capire qual è il motivo del suo mal di testa facendo dei collegamenti tra la storia del dio e quella dei suoi eventi personali. In pratica il paziente “riempie” l’archetipo universale, che qui è la storia del dio, con i suoi contenuti affettivi, e lo utilizza per capire cosa gli sta succedendo, e per mettere in atto quei cambiamenti necessari al bisogno della psiche che è espresso nel simbolismo del sintomo, e che si trova già indicato nell’evoluzione della storia del mito raccontato.
La mitologia è collegata con le sue storie ad altri grandi contenitori universali di archetipi: pensiamo all’ASTROLOGIA, una vera e propria psicologia proiettata nel macrocosmo, cioè negli astri, che sono gli archetipi o divinità primigene le cui vicende hanno dato origine al cosmo e caratterizzano la personalità di ogni individuo, essendo ripercorse sottoforma di transiti e aspetti planetari osservabili nelle sincronicità che si creano nell’oroscopo di nascita di ogni individuo. La diversa combinazione degli archetipi planetari nel tema natale offre a ognuno la possibilità di rispecchiarsi nelle dinamiche psicologiche che emergono dagli aspetti dei pianeti, cioè dalle storie di quelle specifiche divinità ed elementi messi in relazione tra loro e le caratteristiche psicologiche del soggetto.
Pensiamo anche all’ALCHIMIA, la psicologia proiettata invece nel microcosmo, cioè nei metalli e negli elementi primari, per cui l’opera chimica dell’alchimista che lavora la materia prima per purificarla fino a estrarne oro e argento, è la metafora e il racconto simbolico del lavoro psicologico che l’individuo deve compiere per destrutturare, differenziare e ristrutturare le parti e gli elementi della propria psiche. Le immagini prodotte dalla nostra psiche, in questo lavoro su se stessi, passano attraverso specifiche fasi alchemiche: dal caos indifferenziato, dove si è soggetti a una coazione a ripetere i propri errori, e dalla “nigredo”, cioè da una fase “nera” o depressiva di mortificazione, pesantezza e putrefazione immaginali che spesso coincidono con l’inizio della terapia e il bisogno di “curarsi”, si passa a una fase di “albedo” o candore dell’anima, in cui il nero è stato lavato attraverso una prima differenziazione e ricongiunzione degli elementi conflittuali, fino a fasi colorate come la “citrinitas” o la “rubedo”, in cui il lavoro su se stessi ha portato a una ricombinazione organizzata degli elementi che nella psiche erano contrapposti, generando l’”oro alchemico” ovvero la ricchezza interiore, la saggezza, l’unità e l’incorruttibilità a cui aneliamo come gli alchimisti nella nostra vita.
La psicologia archetipica si interessa anche all’ARTETERAPIA, in tutte le sue forme (musica, pittura e disegno, scultura e installazioni, teatro, cinema, letteratura e poesia, ecc.), poiché attraverso l’arte noi rappresentiamo le nostre immagini archetipiche, e abbiamo la possibilità di “regolarle”, ovvero di manipolarle, ripararle, distruggerle e ricrearle, mettendo mano sulla dinamica dei nostri oggetti interni che vengono simbolizzati dall’oggetto artistico. L’arte nella terapia archetipica svolge anche altre importanti funzioni, tra cui quella creativa, immaginativa e conoscitiva: apprendiamo a interagire attivamente sulla realtà, ben aldilà del semplice fantasticare, realizzando opere creative che, partendo dal proprio pensiero ambivalente e dal disagio relativo, intervengono sulle sue rappresentazioni per ristrutturarlo. Nell’arteterapia, noi rendiamo possibile la realizzazione di un sogno o di un desiderio, conoscendo i propri limiti e accettando le relative frustrazioni del compito, gratificando tuttavia l’autostima e ampliando la capacità immaginativa del paziente, cioè stimolandolo ad andare oltre i propri stereotipi e schemi comportamentali, e innescando un cambiamento nel suo modo di vivere e comportarsi.
LA PSICOLOGIA ARCHETIPICA E I MALI DELLA SOCIETÀ
Pensiamo ad esempio alla depressione dilagante dagli anni ‘70 fino ai nostri giorni. Secondo la psicologia tradizionale, il paziente viene spinto a ricercare i motivi della perdita della capacità di gioire della propria vita quotidiana in una perdita familiare o in una separazione affettiva, o in un trauma infantile, ecc. per cui se domandiamo a una persona che si sente depressa se ha avuto delle perdite o delle separazioni, quasi sempre questa sarà in grado di elencarne qualcuna, perché drammi e perdite e separazioni fanno parte della storia di vita e del passato di ogni individuo, che si consideri sano o malato. Ma quindi è la capacità di vedere il significato di quella perdita in una visione più ampia della propria vita, all’interno del mondo e della società da cui dipende ogni relazione sociale e familiare, che il trauma della perdita o del distacco perde allora la sua funzione patologica e diventa una tappa evolutiva e uno scopo per agire, cioè il motore stesso della guarigione. In questa prospettiva, è il sintomo stesso l’attivatore delle energie psichiche che servono al soggetto depresso per riflettere sul significato di ciò che di spiacevole e negativo gli è accaduto, e una volta capito il significato di quell’evento, per andare avanti attuando in se stesso quel cambiamento nella sua vita e nel modo di relazionarsi agli altri di cui ha bisogno per crescere, evolversi e maturare. In questo senso, il trauma o la separazione sono “idee archetipiche” che si costellano per deprimerci e ricondurci dall’altro a noi stessi, per farci attivare in prima persona per sostituire il “nero” o il vuoto dell’immagine dell’altro con una nuova immagine di se stessi.
La mitologia offre tutto un repertorio di storie di archetipi già ben “collaudate” sul funzionamento della psiche umana in un contesto di perdita o separazione: pensiamo ad esempio al dramma della separazione della fanciulla Kore, rapita da Ade il dio della morte, dalla madre Demetra, dea del raccolto e delle messi, che genera l’alternarsi delle stagioni tra la tristezza dell’inverno con l’allontanamento di Kore, e il ritorno della primavera e dell’estate con il ricongiungimento della figlia alla madre sulla Terra. Questa storia puo’ essere davvero utile a far capire a qualsiasi persona le dinamiche intrapsichiche attive nel problema della separazione e della indipendenza dal complesso materno, e allo stesso tempo i pericoli e le prove che l’adolescente ripercorre nel suo processo di individuazione. Oppure pensiamo alla bellissima favola di Amore e Psiche, e alle prove che la giovane Psiche innamorata di Eros deve superare alla ricerca del suo Amore perduto, prove che la fanciulla riesce a superare per l’intervento di altri personaggi, ovvero di altre funzioni psichiche, che ella deve attivare e incorporare.
Abbiamo tutti passato una prova recente di separazione con il lockdown che ci è stato imposto per il Coronavirus. Ricordo ad esempio la telefonata che mi fece una ragazza, disperata poiché non poteva più vedere il proprio fidanzato. Le raccontai questa storia, le parlai di Amore cioè Eros, l’eroe il cui destino è ritrovare la sua amata Psiche, ovvero la sua Anima (ricordiamo che psyke in greco significa anima), e delle prove che quest’ultima deve affrontare. Le parlai dell’Ade, dell’inferno della depressione in cui la giovane è costretta a scendere, meditando persino il suicidio, ma infine assolvendo la sua prova, quella di trovare la vera Bellezza. Le parlo dell’immortalità, il dono metaforico dell’Amore che, come Psiche, lei riceverà insieme al suo amato nel ritrovarlo alla fine di questa prova, dopo aver imparato a soffrirne l’assenza e a riempirla con la Bellezza. Ma cos’è la vera Bellezza, se non la stessa dèa Afrodite che in questa fiaba mette alla prova Psiche?
Ma la depressione è anche un male sociale e collettivo. Secondo Hillman, la depressione che viviamo oggigiorno è proprio la mancanza del potere curativo di Afrodite, cioè della mancanza della capacità di condurre le “prove” che ogni giorno ci portano a riconoscere la vera bellezza in quello che facciamo e nel mondo in cui viviamo. Ciò deriva anzitutto dalle condizioni di vita a cui ci costringe il modello di società moderna verso cui siamo spinti. Pensiamo alla bruttezza e al perturbante del cemento e delle microscopiche abitazioni in cui viviamo reclusi, pensiamo all’artificialità dei materiali che utilizziamo ogni giorno, pensiamo alla bellezza stessa, questo valore che oggi si è perso, o meglio, si è mantenuto solamente nella sua forma vuota, senza significato, per cui facciamo cose di cui non capiamo nemmeno il motivo, e la ricerchiamo in continuazione nello shopping, nelle cure estetiche, nell’ideale del denaro, nel benessere inteso come sfruttamento smodato delle risorse ambientali. Il benessere che porta Afrodite è stato scambiato per una bellezza solo esteriore, superficiale, mentre Afrodite è la bellezza del significato delle cose che viviamo, l’unico tipo di bellezza che puo’ generare un benessere psicologico stabile e duraturo, che puo’ addirittura curare gli stati di depressione, perché nutre l’anima, la mente e il corpo insieme e nel profondo del nostro vissuto, non solamente sulla forma esteriore, sulla quale invece ci fissiamo. Dobbiamo essere rieducati a vedere la vera Bellezza, perché essa è ciò che cura l’anima, che senza di essa si ammala e genera stati di stress e malattie somatiche. Quello che dobbiamo capire, qui, è che il corpo, la mente e la psiche sono più che collegati, sono proprio un’unica entità che non puo’ funzionare bene separatamente.
CONCLUSIONI
La nostra convinzione è che la psiche, ovvero l’anima, non debba essere curata in quanto malata, né la sua sofferenza debba essere cancellata rimuovendo le immagini che ci presenta, ma che gli aspetti conflittuali e contrastanti vadano compresi assieme e riunificati per capire il loro significato all’interno del percorso della nostra vita. È nel prendersi cura della psiche, in tutti i suoi aspetti, che il sintomo viene conosciuto e compreso adeguatamente come un messaggio simbolico volto ad attuare un cambiamento. Questi simboli e le immagini prodotte dalla psiche qui trovano finalmente ascolto e possono essere conosciute, non tentando un rimedio temporaneo attraverso farmaci e diagnosi, ma portando la persona a un cambiamento permanente verso la salute e il benessere individuale e collettivo. Ciò è possibile restituendo la psiche e le sue immagini al corpo, e alla società e al mondo di oggi, attraverso un continuo riferimento nella terapia clinica ai problemi sociali attuali, alla medicina e alla ricerca, cioè alle immagini e agli immaginari del nostro tempo. Curare l’anima delle persone equivale quindi a curare la società moderna, e noi psicologi archetipici abbiamo intenzione di farlo partendo anche dal basso, dall’assistenza pubblica, anche dalle fasce di popolazione che hanno un reddito basso e che non possono permettersi una psicoterapia. Vogliamo essere presenti anche nei quartieri e nei luoghi dove tradizionalmente la psicoanalisi raramente è riuscita ad arrivare proprio perché si è sempre rivolta a una utenza più colta e borghese. È un movimento culturale, il nostro, anzitutto ecologista, perché propone una ecologia della mente, per cui una nostra convinzione è che rieducare le persone alla psiche e alla dimensione del significato delle cose che vivono sia una premessa necessaria per permettergli di vivere in salute la propria vita e il proprio corpo.
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