Dolore per amore: perché soffriamo?

Me lo chiedono sempre in molti. Ho passato più di dieci anni a studiare i meccanismi del dolore e nuovi possibili trattamenti per il dolore cronico, quel dolore che sembra non aver cura, quello che rimane anche dopo la guarigione della ferita e del trauma che l’ha causato. Del dolore, se ne capisce subito la grande importanza come protezione e allerta dal pericolo. Per esempio le persone che per una rara mutazione genetica non provano dolore non si rendono conto di danneggiarsi gli organi o di rompersi ossa e tessuti anche mentre stanno semplicemente camminando, e continuano inconsapevoli fino a rischiare la morte.

Ma aldilà del dolore causato da un danno fisico, perché dobbiamo soffrire anche con il cuore e con la mente?

Il dolore psicologico.

Nei miei anni di lavoro sono approdato a una concezione olistica del dolore cronico, che comprende cioè quello fisico come quello psicogeno. Mi spiego meglio. Un trauma importante ha sempre un impatto sia sul corpo che sul cervello e quindi sull’anima. Per esempio una persona che ha improvvisamente scoperto di essere stata tradita dal partner, allo stesso modo di un’altra che è invece caduta dalla moto, soffrirà di un dolore fisico acuto e di uno psicologico, più latente e tendente a cronicizzarsi. Nel caso del trauma da tradimento, la complessa rete neuronale coinvolta nella percezione dell’amore e dei vissuti emotivi ad esso legati sono indotti a un blocco o inibizione, fino a una loro eliminazione forzata e a una totale riorganizzazione delle rete nervosa.

Lo stesso accade quando un trauma fisico improvviso (come per una caduta) causa la disconnessione diretta o il blocco di alcuni piccoli nervi nei tessuti o negli arti o, ancor peggio, di neuroni della spina dorsale o del cervello. Immaginate centinaia di migliaia di neuroni che nel nostro sistema nervoso sono costretti a degenerare lentamente, attaccati da una reazione infiammatoria autoimmune, oppure che devono sforzarsi a cambiare le loro connessioni per continuare a sopravvivere. Tutto ciò si traduce sempre in una prolungata sofferenza, che dapprima si focalizza in qualche luogo od organo del corpo, spesso provocando la perdita del suo corretto funzionamento. Ma che sempre comporta anche un’onda secondaria di devastanti effetti “dolorosi”, alcuni dei quali possono restare “memorizzati” per sempre nel sistema nervoso, formando un mal-adattamento al cambiamento avvenuto. Il dolore cronico ha proprio questa origine e si traduce nel tentativo di un adattamento a un cambiamento inaspettato, disfunzionale e irreversibile.

Ma perché la natura ha scelto di volerci far “ricordare” del trauma avvenuto, condizionandoci così l’intera esistenza? Non poteva selezionare un meccanismo di “apprendimento dei pericoli” un po’ meno crudele o duraturo?

Per poter rispondere a questa domanda, dovete cercare di capire il valore ancor più grande del significato della nostra esistenza. E cercare di trovare il vostro posto in essa, se non l’avete ancora iniziato a fare. In questa vita ogni cosa è separata nei suoi opposti (in questo caso, l’opposto tra piacere e dolore). Forse non vi siete mai accorti che ciò avviene affinché i valori della propria esistenza vengano compresi vivendo l’esperienza tra quegli opposti.

Faccio degli esempi. Quando sei piccolo, devi cadere e farti male per imparare a camminare e correre in libertà. Quando sei già grande, devi cadere e provare dolore per ricordarti che il tuo corpo è sempre ciò di più prezioso che hai e che devi stare attento per preservarlo e goderti la vita. Seguendo lo stesso ragionamento, possiamo dire che bisogna conoscere un bugiardo per capire il valore della sincerità. O che devi sentirti ferito per capire il valore della bontà. Oppure, devi abbracciare e non essere abbracciato allo stesso modo per capire il valore dell’amore. Devi soffrire la volontà altrui per capire il valore della libertà. Devi sentirti perduto per capire il valore della casa. E così via per ogni cosa che assume significato nella nostra vita.

Allora, finché non vivremo delle esperienze negative non potremo mai comprendere quali siano i valori positivi, quelli di cui l’uomo ha bisogno per vivere in equilibrio e al meglio con la natura e gli altri. Quei valori come il piacere, l’amore, la sincerità. Perché come disse Carl Gustav Jung, “per quanto ci è dato di sapere, il solo scopo della vita umana è gettare una luce nella tenebra della mera esistenza”.

Purtroppo, non si può scegliere di non dover provare dolore per poter cambiare, ma quanto questo dolore debba durare, su questo sì che possiamo fare la differenza. Perché ogni atteggiamento volto a cercare di recuperare ciò che è stato perso o interrotto implica un prolungamento del dolore. Mentre invece, accettando il cambiamento e adattandosi al meglio ad esso, imparando a convivere con esso e scegliendo coscientemente come riprendere in mano la propria vita, significa ridurre drasticamente le proprie sofferenze e velocizzare il processo di guarigione, che consiste nel ritrovare se stessi, il proprio posto nella vita. “Ciò che non ti uccide, ti rende più forte”, si dice, ma diventare più forti può essere possibile solo scegliendo di volerlo.

Dolore per amore: ecco perché.

Chiunque sia stato innamorato sa cosa significa soffrire per amore. Anche se propriamente ciò che fa soffrire è il disamore, nonché il rifiuto. Da sempre la grande domanda è stata: perché l’amore fa soffrire così tanto quando finisce o non è più corrisposto?

J. D. Nasio, nel suo “Libro del dolore e dell’amore”(2000), descrive tre livelli del dolore: quello reale (la percezione somato-sensoriale che viene data dai recettori degli organi del corpo), quello simbolico (la sua rappresentazione mentale e cosciente), e quello immaginario (ovvero l’immagine della sede di lesione che viene associata al dolore). L’emozione dolorosa viene quindi creata dall’autopercezione cosciente, che distingue un dolore del corpo da un dolore della psiche. Nel corpo, il dolore esprime una reazione sovrastimata alla rappresentazione o immagine che si ha della parte ferita: pensate al dolore acuto che si prova per la semplice puntura di uno spillo. Analogamente, nella psiche il dolore esprime una reazione di sovrastima alla rappresentazione o immagine della persona amata e perduta: pensate a quanto puo’ essere sovrastimata la persona amata quando induce alla depressione o al suicidio la persona che si sente abbandonata. Il ogni caso, il dolore ha origine dall’estremo sforzo di reazione dell’Io cosciente alla perdita dell’amato, polarizzando nel dolore psichico tutta l’energia vitale su un’unica rappresentazione mentale, intensificandola e saturandola, finendo perciò per vivere solo di quel dolore.

Il dolore psichico per amore è dunque una reazione normale di affetto che traduce nella coscienza lo shock di non ritrovare più quello che nella psiche si era consolidato come un insieme di memorie, vissuti, abitudini, sicurezze, e quant’altro quella persona rappresentava. E’ quindi chiaro che, se tale persona era stata “sopravvalutata”, ovvero gli erano state attribuite valori e caratteristiche che in realtà non possedeva, ma a cui nella nostra mente la avevamo collegata, la reazione di dolore diventa esagerata e finisce per divorare una parte della nostra psiche, che non si riconosce più come prima.

Il lutto significa disinvestire a poco a poco la rappresentazione satura dell’immagine dell’amato perduto per renderla di nuovo conciliabile con le rappresentazioni dell’Io cosciente. Ma cosa succede di preciso nel nostro cervello?

Sappiamo già qualcosa almeno dal 2010, quando venne pubblicato il primo di una serie di studi su persone che erano state da poco lasciate e che tuttavia continuavano a sentirsi innamorate (J Neurophysiol. 2010 Jul;104(1):51-60). Prendendo immagini dell’ attività del loro cervello mentre osservavano fotografie della persona amata, fu dimostrato che l’amore aveva agito su di esso come una potente droga, attivando fortemente alcune aree cerebrali allo stesso modo della cocaina. In questo caso, il rifiuto aveva innescato gli stessi meccanismi di risposta dell’astinenza e della disintossicazione, ovvero di estrema sofferenza fisica. Ma non è tutto. Il dolore attivato dal rifiuto era indotto dalle stesse aree che normalmente elaborano il segnale di dolore fisico e ne producono la sensazione. In particolare, si è visto che l’amore romantico, ovvero l’idealizzazione dell’ amore, potenziava grandemente la sofferenza nei pazienti che lo avevano vissuto.

Mi spiego meglio. Il cervello reagisce più intensamente al ricordo di un dolore sofferto per amore rispetto a un dolore generato da un danno dei tessuti del corpo. Ovvero, molto tempo dopo che abbiamo ricevuto un trauma fisico, non possiamo più rivivere il dolore che abbiamo sentito, ma invece questo è possibile nel caso di un trauma sentimentale. Ciò origina dal fatto che più noi attribuiamo “importanza” all’ oggetto o persona origine del nostro trauma sentimentale, più intensa sarà la sua traccia nella memoria, più duraturo il suo ricordo e perciò anche la rievocazione del dolore associato. L’immagine della persona amata, allora, non deve essere esageratamente sovrainvestita: non bisogna sovrastimare l’importanza della persona amata nella nostra vita oltre a quella reale di una persona per noi importante e che ci fa stare bene. Non dobbiamo attribuire valori totali al nostro amore, pensando che non potremmo vivere senza di esso.

Non dobbiamo idealizzare la persona amata, attribuendogli virtù da supereroe, perché rischiamo di perdere il suo valore reale: quello di una persona normale, con dei pregi ma anche dei difetti e dei limiti nell’amore. Altrimenti rischiamo di impazzire per il dolore per una persona sulla quale avevamo erroneamente investito tutta la nostra energia, erroneamente perché per noi di quell’energia non ci rimane niente.

Qual è la cura migliore?

Secondo le neuroscienze e anche il buon senso, la cura migliore è altro amore. I pazienti che si “disintossicavano” più velocemente, ovvero quelli che estinguevano in minor tempo il dolore d’amore, erano quelli circondati da più affetti e persone care. A maggior ragione, quindi, non puntate mai tutto su una sola persona, né su un solo tipo di amore. Fratelli, parenti, amici.. l’ amore è ovunque. Se vi fissate su una sola persona a immagine dell’amore, è perché quell’immagine è dolorosa e occorre che venga rivista e che ne venga compreso il suo reale valore e il significato che ci porterà a una nostra trasformazione.

Attraverso l’analisi delle immagini del racconto degli eventi quotidiani, come dei ricordi e dei sogni, i contenuti immaginativi che ciascuna parte della nostra psiche presenta alla nostra coscienza, come manifestazione dei suoi bisogni e delle sue funzioni, possono essere così “ri-visti” e “ri-conosciuti” per il loro significato e per lo scopo verso cui essi premono proprio attraverso la sofferenza e il dolore psicologico. Le immagini penose e dolorose esprimono attraverso il dolore la necessità di essere riviste e comprese in un modo diverso, cioè di essere trasformate in nuove immagini di se stessi e dell’altro, utili a ristabilire l’armonia psichica e la realizzazione personale.

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