IL SOGNO E LA SINCRONICITÀ – L’analisi dei sogni dopo Freud, Jung e Hillman

Questo è il titolo del mio nuovo libro, un trattato sul sogno e sulla sua analisi in terapia, un’opera che sto scrivendo da alcuni anni e basata su una ricerca storico-metodologica, clinica e personale, e che uscirà nelle librerie a Novembre 2024 dalla MaGi Edizioni. Ad oggi, nessuno ha mai descritto in maniera sistematica il sogno come meccanismo dei cosiddetti fenomeni di sincronicità, e questo sarà il contributo principale che con quest’opera intendo portare nel mondo della psicologia e che descriverò dettagliatamente nell’ultimo quarto del libro. Tuttavia, per arrivarci passerò in rassegna i maggiori contributi sul sogno e sul suo utilizzo terapeutico e nella comprensione filosofica e scientifica dei meccanismi della psiche profonda, fino alla descrizione dell’affidabile e ripetibile metodo di analisi del sogno secondo l’ontologia orientata agli oggetti, che già da tempo noi archetipici utilizziamo nell’ambito del nostro innovativo approccio. Nell’intento di proseguire il dibattito rimasto aperto sulla natura del sogno e sul suo utilizzo in terapia, e nella speranza che esso progredisca fino a raggiungere finalmente un generale consenso sulla pratica analitica, sui suoi fondamenti epistemologici e sulla sua gnoseologia, lascio qui intanto la mia introduzione dell’opera, dove delineo il tracciato che lega la mia esperienza personale al mondo della psicologia del profondo e a questa nuova rivoluzione nell’uso del sogno come sincronicità.

Prima o poi capirai, come ho fatto anch’io, che una cosa è conoscere il sentiero giusto, un’altra è imboccarlo.

(Morpheus in “Matrix”)

Che cos’è un sogno, e perché sogniamo? Questa domanda è rimasta fino ad oggi aperta, e molti sono stati i tentativi di rispondere ad essa. Nello scrivere un libro sui sogni, così come nel leggerlo, non dovremmo mai dimenticare ciò che insegnava Carl Gustav Jung, senza ombra di dubbio l’uomo più importante della storia della psicologia. Jung diceva che nessun libro di psicologia può insegnare la psicologia, perché tuttavia è possibile apprenderla soltanto tramite l’effettiva esperienza. In psicologia, diceva Jung, si possiede solo ciò di cui si è fatto esperienza diretta nella realtà quotidiana: quindi una semplice comprensione intellettuale non è sufficiente a capire quello di cui parliamo seppur con una certa erudizione, perché si apprendono solo i termini e non la sostanza dell’evento in questione. Iniziamo perciò a far piazza pulita di tutte le credenze che abbiamo sul sogno, sul mondo onirico e in generale sulla psiche, che non siano passate prima al vaglio di un intenso e profondo lavoro pratico su di esse. Ho iniziato a scrivere questo libro soltanto dopo aver analizzato diverse migliaia di sogni di altre persone, centinaia di persone diverse, ognuna con la sua storia e con una vita diversa dalle altre.  Non meno importante per la genesi di quest’opera è stata l’analisi di centianaia dei miei sogni, effettuata con i miei terapeuti nell’arco di anni durante le varie terapie di approccio psicodinamico, in particolare gestaltico e analitico archetipico. È soltanto dopo aver avuto modo di vedere l’infinità dell’anima attraverso un gran numero di forme, inquadrature, punti di vista e prospettive diverse dalla mia, che sono riuscito a farmi un’idea di cosa essa sia e di come noi funzioniamo rispetto ad essa. Durante il mio percorso multidisciplinare, mi sono reso anche conto che per analizzare in modo efficace un sogno non basta neanche una grandissima esperienza pratica, da sola e senza un metodo di analisi. Nonostante esso sia ovviamente limitante rispetto le pressoché infinite possibilità di interpretazione che offre la psiche, senza un metodo preciso vi perderete nella dimensione infinita dell’anima, ogni volta ricadendo nel dubbio delle sue apparenze, oppure vi barricherete in una superficiale o letterale convinzione su un suo aspetto. Nell’affrontare qualsiasi esplorazione dell’anima abbiamo bisogno di quella che Gregory Bateson definiva “una mappa”, specificando che «la mappa non è il territorio»: il lógos dell’anima, in senso eracliteo, non può mai essere colto nella sua interezza, e approssimare troppo la mappa che ci costruiamo per orientarci nel suo territorio perché così facendo finiremo soltanto per complicarci la vita: come le mappe, gli schemi e le teorie possono diventare ingombranti, fuorvianti o pericolose. Il poeta Paul Valery espresse così l’ambiguità della posizione in cui si trova colui che intende conoscere l’anima: «Tutto quel che è semplice è falso. Tutto ciò che è complesso è inutilizzabile».

L’espressione “la mappa non è il territorio” vuole ricordarci che esiste una sostanziale differenza tra la realtà e la sua rappresentazione, e si deve al filosofo Alfred Korzybski, che la usò per primo. Korzybski intendeva sottolineare la differenza tra un oggetto e la rappresentazione dell’oggetto, tra una realtà e la rappresentazione di quella realtà, perché era convinto che le persone faticassero a distinguere le due cose. La differenziazione tra rappresentazione e mondo reale è stata oggetto di discussione dei più grandi filosofi e pensatori che vissero a cavallo tra l’ottocento e il secolo scorso, come Kant, Hegel, Nietzsche e Heidegger, fino alla contemporanea filosofia orientata agli oggetti. Il dibattito su cosa del mondo può essere considerato reale e cosa è invece una sua rappresentazione è stato d’importanza cruciale per la psicologia moderna, e come nelle scienze e nelle arti gli psicologi lo hanno raccolto e utilizzato nella definizione delle proprie “mappe” o teorie, modelli e procedure con cui conoscere la psiche. Ad oggi, tuttavia, vivamo ancora la spaccatura che si è creata all’interno di questo dibattito tra il positivismo del mondo accademico, che crede nella possibilità di indagare con un metodo scientifico la psiche come realtà fisica conoscibile, e la psicologia del profondo, che ha portato l’esperienza della difficoltà nel trovare un approccio empirico, affidabile e rigoroso per definire la realtà dell’anima in modo oggettivo. Il problema dell’affidabilità della nostra percezione nel definire gli oggetti del mondo è stato espresso pittoricamente ne “Il tradimento delle immagini” di René Magritte, ed è stato autorevolmente impostato da Jung nella sua dinamica energetica della psiche attraverso la descrizione del fenomeno della proiezione dei contenuti psichici sugli oggetti. La necessaria consapevolezza della distinzione tra immagine e mondo, tra formulazione linguistica ed evento, in medicina verrà espressa mediante l’avvertenza metodologica che “una diagnosi non è una malattia”, sostenuta per esempio da Thomas Szasz. Nonostante i notevoli passi che ha fatto in questo senso il pensiero dell’uomo attraverso ogni campo del sapere e della ricerca, dobbiamo purtroppo constatare ancora oggi il motivo della distinzione di Korzybski: noi tendiamo a confondere ciò che è visto con il “come “ è visto. Considero questo problema il problema più grande della psicologia e dell’analisi del sogno, quello intorno al quale gli psicologi restano a tutt’oggi divisi e impantanati. È come se le loro “mappe” ancora non tenessero conto di questo fondamentale problema, come se non considerassero la prioritaria necessità di impostare una legenda o un qualche sistema convenzionale di lettura e spiegazione della simbologia utilizzata nella mappa. Da una parte, la maggior parte degli psicologi continuano a considerare ciò che i loro pazienti raccontano come fosse una realtà concreta, da una parte, e quindi a non considerare ciò che pure Freud riconobbe attraverso la sua esperienza, e cioè che si tratta perlopiù di fantasie e immaginari psichici; dall’altra, essi stessi continuano perlopiù a utilizzare le immagini e i contenuti psichici dei racconti dei pazienti in senso letterale e concretistico, confondendo per primi il piano soggettivo con quello oggettivo dell’esperienza.

Il sogno è forse il fenomeno che attesta meglio di qualsiasi altro evento psichico l’esistenza di questi due livelli di realtà e la loro distinzione, e per questo motivo è stato da sempre utilizzato come schema o modello della psiche. Nonostante sia diffusa la tendenza a credere che il sogno parli della realtà concreta e che la sua funzione sia quella di riferirisi direttamente ad essa, il sogno non è chiaro per natura perché mostra una realtà differente da quella che il sognatore conosce o si aspetta. L’esperienza dell’analisi porta proprio a riconoscere che anche il sogno apparentemente più semplice o scontato in realtà presenta qualcosa di diverso da quello che crediamo di aver visto o di sapere su di esso. Ciò accade probabilmente perché il contenuto del sogno è estremamente vitale e importante per la nostra salute psichica. Come il codice segreto che può innescare una testata nucleare oppure disinnescarla, il significato del sogno non può essere lasciato alla mercé di chiunque. Per questo motivo, Jung e tutti coloro che si sono addentrati nell’anima abbastanza da coglierne la portata distruttiva per l’uomo hanno riposto il fondamento della pratica terapeutica col sogno, e del relativo cambiamento psicologico, non in una realtà empirica qualunque ma nella stessa personalità del terapeuta: vale a dire che tutto dipende dal metodo nel quale il terapeuta crede, e dal modo in cui questi riesce a rendere il paziente (o il sognatore) partecipe di esso[1].

Per Jung e anche per me, la “fede” nel metodo analitico è determinante tanto quanto il modo in cui l’analista è persuaso da esso, e con esso cerca di persuadere il paziente nel processo terapeutico, che quindi ha ragion d’essere non tanto come counseling ma come processo dialettico nella relazione umana tra paziente e terapeuta. In senso archetipico, in questo libro ad esempio vedremo come Peito, la dea Persuasione, non era un dèmone da temere né da scacciare sotto l’egida del moralismo, ma era un importantissimo aspetto della dea Bellezza o Afrodite, la grande dea madre natura che, come forza alchemica, guida la nostra stessa trasformazione. Nel mio approccio, che è quello della psicologia analitica e archetipica, seguo il cammino iniziato da Jung e sviluppato da James Hillman, il più grande critico contemporaneo della cultura psicologica moderna. Nel geniale senso polemico e persuasivo che lo caratterizza, Hillman ha detto che di tutti i peccati della psicologia, il più grande è stato proprio quello di trascurare Afrodite, la Bellezza. Per Hillman, la psicologia non è stata per niente generosa con questa dea, riconoscendola principalmente in astrazioni deformative come il “principio di piacere”, e degradando tale principio al rango di opposto, e perfino di minaccia, al cosiddetto “principio di realtà”, per poi ricomparire travestita nel desiderio come forza fondamentale attiva nella psiche e nella società, ovvero nei concetti di eros e libido[2]. Mi trovo così d’accordo con Hillman sul fatto che queste restano pure e semplici costruzioni concettuali, vuote di quella reale e profonda invisibile bellezza della psiche, che anch’io, appena posso, utilizzo il linguaggio caro alla dea Bellezza, quello che adorna e impreziosisce i contenuti psichici così come li rappresentiamo e li raccontiamo: quello delle arti e della poesia come delle rappresentazioni estetiche del sentimento.

Come già ammoniva Jung nel secolo scorso, la società moderna è una società malata di concupiscenza, e gli stessi psicologi sono i primi ad essere malati del desiderio per l’apparenza e per la materia, come la medicina lo è per la salute a tutti i costi. Gli psicologi sono i primi soggetti alla nevrosi ossessiva della ricerca del benessere fisico, del denaro e del riconoscimento materiale del proprio valore professionale, operando una costante rimozione di Afrodite attraverso il proprio moralismo. Per essere dei bravi terapeuti e analisti di sogni, invece, dobbiamo sempre tenere presente che il nostro compito è quello di fare psicologia nel mondo, non di fare soldi né di avere successo e metterci in mostra, e il piacere e la soddisfazione che possono arrivare da questo lavoro dev’essere sempre riferito all’anima del mondo e al dovere che abbiamo nei confronti di essa. Aldilà della concupiscenza e del personale desiderio di riconoscimento, come Jung anch’io disprezzo fortemente coloro che mettono mano nella psiche e nei sogni della gente senza quel rispetto del sacro, quell’amore spirituale, quella dedizione e quel desiderio di conoscenza, che caratterizzano ogni profonda passione e vocazione rivolta a cambiare il mondo attraverso sé stessi. Per poter ingenerare “anima” e Bellezza nel mondo, dobbiamo essere già noi stessi persuasi dal potere di Afrodite. È per questo motivo che la suggestione e la persuasione non dovrebbero mai essere screditate, in quanto sono alla base degli stessi processi psichici e della coscienza, nonché della stessa psicoterapia[3].

Quegli scienziati che si appellano alla validità e all’imparzialità del loro procedimento, e quegli psicologi che esaltano la razionalità del loro metodo, costituiscono un problema per la conoscenza della psiche. Come il sogno, la psiche e le sue immagini sono qualcosa di fondamentalmente irrazionale e di verificabile solamente come sapere implicito: come vedremo più avanti, di una realtà dell’anima che non può essere vissuta e compresa allo stesso modo dei fatti della realtà fisica e concreta. Ciò nonostante, i fatti che accadono nel nostro mondo notturno e nell’immaginazione influenzano la nostra vita e il mondo ancor più di quelli che crediamo essere puramente logici, e per questo motivo non possono non essere oggetto del nostro interesse. Persino le numerose ricerche effettuate nel tempo e raccolte dalla Society for Psychotherapy Research sulla validità e sugli effetti delle diverse psicoterapie hanno dimostrato una loro generale validità, e che quindi, con un pò di esperienza, apertura ed empatia, tutti gli psicoterapeuti possono avere un effetto su un paziente a prescindere dal loro approccio e dal metodo che utilizzano. Si capirà allora l’importanza della fede in un metodo e del suo utilizzo con Peito e Afrodite soltanto all’interno di una prospettiva che riconduca l’effetto stesso della terapia alla personalità del terapeuta. Questi potrà chiaramente essere convinto del proprio metodo tanto più lo riconosca come effetto della sua personalità e della sua personale prospettiva sulla psiche, e sappia mettere il proprio punto di vista soggettivo in relazione alla personale esperienza di vita. Fare psicologia soltanto ripetendo ciò che leggiamo sui libri è invece ciò che fanno i ciarlatani, o ancor peggio chi, per non conoscere sé stesso, resta vittima della paura dell’effetto che le proprie parole possano suscitare nel paziente, e inconsciamente si dimette dal ruolo di mentore, psicopompo o “guida di anime” quale invece è o dovrebbe essere uno psicologo, riversando questa responsabilità sullo stesso paziente, sulle sue scelte e aspettative. Ogni volta che ad esempio facciamo prima di tutto domande al paziente chiedendogli cosa egli creda che stia succedendo nella sua vita, o cosa egli creda che significhi il suo sogno, o cosa questi dovrebbe fare o meno della propria vita, è come se noi gli puntassimo addosso una lampada da interrogatorio, oppure nel migliore dei casi è come se noi lo lasciassimo nel bel mezzo di un deserto dopo avercelo attirato con la nostra accoglienza o presunta erudizione. Il paziente viene da noi terapeuti proprio perché “non sa”, e non sarà la nostra sola presenza ad essere così magica da fargli recuperare da solo, nel suo mero soggettivismo, il punto di vista alternativo che invece gli serve o sta cercando sulla sua psiche aldilà di quello dal quale non riesce, appunto, a vedersi e a capire. Eppure, a quanto pare, la maggior parte degli stessi psicologi oscillano dal dare consigli e dispensare la loro erudizione come sapere preconfezionato e pronto all’uso, al nascondersi dietro il relativismo psichico lasciando al paziente stesso la responsabilità di decidere il senso della propria vita e di saper cogliere per primo il significato degli eventi.

Se il metodo da seguire in terapia è, come Jung ha detto, rappresentato dall’analista stesso, e se la cura come persuasione arriva soltanto attraverso la capacità di scoprire e infondere anima nella coscienza, l’ingrediente fondamentale dell’analisi del sogno come cura della psiche sarà la Bellezza che ritroviamo nei simboli e nelle immagini oniriche, e nella cura che noi avremo di essi. Possiamo infatti pensare di possedere il pieno controllo del nostro “essere un metodo” o “un modello”, e aver guadagnato la capacità di saper scuotere in questo modo le coscienze della gente; ma senza riconoscere che le immagini psichiche sono i dati empirici che abbiamo dell’anima stessa, e che come tali essi sono il modo e il mezzo attraverso cui l’anima dispensa il suo immenso potere trasformativo, noi resteremo rinchiusi all’interno della nostra teoria e delle nostre personali conoscenze. In poche parole, crederemo che la nostra ben povera mappa sia il territorio stesso. Un sogno è anima, e l’anima è ben altro che la nostra coscienza e il nostro “io”. Ragion per cui non dovremmo credere in particolar modo nel nostro metodo, ma nella psiche e nelle sue immagini come metodo precipuo che la psiche stessa, come causa agente del sogno, attraverso di esso ci propone. Dobbiamo anzitutto cogliere l’evidenza che il sogno sia un fenomeno a noi involontario, per cui nessuno è in grado di decidere i propri sogni né quelli degli altri, ma è come se essi ci venissero mandati da un’altra dimensione dell’essere come forma di intelligenza diversa rispetto alla nostra: la dimensione autonoma dell’anima o della psiche. In questo libro vedremo come quella di credere fermamente nella sua esistenza e nella sua forma di ragione aldilà della nostra, sia l’unica chiave per carpirne i segreti e raggiungere una conoscenza più profonda della nostra esistenza. Qualora non abbiate una fede indiscussa sull’esistenza della realtà dell’anima e del sogno – non solo filosoficamente, ma che ne abbiate avuto una quotidiana e continua esperienza diretta -, potete lasciare ogni speranza di arrivare a capire l’essenza intrinseca delle immagini come energie psichiche, perché i vostri occhi resteranno accecati dal vostro razionalismo e attaccati alle sue forme letterali di interpretazione.

Riportate alla luce dalla ri-scoperta dell’inconscio e dell’immaginazione psichica, rispettivamente operate da Freud e Jung, le immagini oniriche sono recentemente passate sotto l’acuta lente della critica di Hillman, autore della rivoluzionaria lettura del sogno come “mondo infero”. Com’è fatto questo mondo? È davvero da lì che arrivano le immagini oniriche, o da quale altra dimensione? Chi sono le entità che incontriamo nel sogno, e cosa vogliono da noi? Qual è il significato dei messaggi che ci offrono in sogno? Fondatore della Psicologia Archetipica, Hillman è l’autore su cui ho scelto di soffermarmi maggiormente, perché oggi è proprio attraverso di essa che anzitutto noi psicologi abbiamo bisogno di concentrare i nostri sforzi per fare anima nel mondo. Hillman è l’unico psicologo e filosofo contemporaneo ad aver sviluppato in un sistema coerente le geniali intuizioni di Jung sulla psiche e sulle sue manifestazioni. La vastissima opera junghiana aveva infatti aperto molte, forse troppe porte tutte insieme sul mondo delle immagini. Molte di esse sono rimaste chiuse durante tutto il tempo dell’iconoclastìa cattolica, e nonostante la sua inesauribile attività, Jung stesso nell’arco della sua vita aveva faticato molto a dare un quadro comprensivo dei vari fenomeni psichici che fosse più o meno accettabile per la cultura della sua epoca. L’opera psicologica di Jung si stava muovendo verso una “teoria del tutto”, solamente abbozzata tra la sua dinamica dell’inconscio, sviluppata integrando la teoria della libido alle concezioni orientali, neoplatoniche e derivate dall’alchimia, fino a quelle emergenti della fisica quantistica, che egli nei suoi studi andava mano a mano recuperando. Ma, come vedremo, la stessa opera di Jung è anzitutto il frutto della sua personale esperienza psicologica, onirica e immaginativa. Ripercorreremo le differenze che Jung riconobbe tra la sua personale esperienza con le immagini e quella che invece tramandava Freud, e che furono all’origine del suo distacco da questi, e la critica che poi fece Hillman allo stesso Jung, contestualmente alle loro personali psicologie, perché il graduale passaggio a un nuovo paradigma epistemologico, quello che va da Freud a Jung fino a Hillman, rapresenta il percorso individuativo della stessa psicologia. Il sogno, dal suo approccio teorico al suo utilizzo pratico nel contesto clinico, è sempre stato al centro della costruzione di un modello paradigmatico della psiche, per cui il poter avere un metodo più efficace di interpretazione del sogno da sempre ha significato il poter avere “una mappa” più affidabile e accurata del suo territorio. Passando in rassegna i fondamentali contributi di questi tre grandi alla psicologia del sogno, nella mia opera posso finalmente soffermarmi nella definizione di una mappa come metodo di analisi per noi esaustivo, non definitivo ma tuttavia del tutto efficace nel raggiungere il suo scopo, ovvero quello di riconoscere e riconsegnare al sogno stesso, cioè alla psiche e alla sua ontologia, il principale ruolo di analista.

Attraverso la mia personale esperienza di analisi dei sogni, come paziente e come analista, capii ben presto che il sogno descrive e definisce la psiche con tutte le sue contraddizioni intrinseche, allo scopo di imboccare una propria via. Tutto origina dal sogno, e tutto tende a ritornare ad esso: il sogno è infatti la testimonianza più chiara e la manifestazione più spontanea dell’esistenza dell’anima. Attraverso il sogno, la presentazione dei contenuti psichici alla coscienza del sognatore e dell’analista costituisce l’opportunità e l’occasione di modificare il funzionamento della coscienza umana, e, attraverso di essa, del mondo. La relazione che intercorre tra psiche e coscienza si svolge attraverso un vincolo di sincronicità tra il suo mondo e il nostro. Ogni sogno attiva e rinnova questo vincolo, che ha lo stesso potere informativo e trasformativo del simbolo. È per questo motivo che dalla notte dei tempi è stato creduto che il sogno contenesse un preciso messaggio divino indirizzato al sognatore. Jung persino credeva che il sogno parlasse non solo al paziente, ma direttamente al suo analista, a cui attribuiva il ruolo che vedeva nel sogno stesso, quello di giudice correttore e compensatore della psiche del sognatore. Cent’anni dopo che Freud e Jung espressero le loro diverse concezioni del sogno, abbiamo abbastanza esperienza e prove cliniche per poter credere invece che il sogno parli anzitutto a sé stesso, ovvero sia una rappresentazione che la psiche fa di sé stessa per sé stessa. Ciò è possibile in quanto, grazie anche ad Hillman, sono decaduti concetti psicologici da loro introdotti ma che nel tempo si sono rivelati privi di una consistente base epistemologica, come quelli di “ego” e “inconscio”, nonostante essi facciano ormai parte delle nostre idee e del nostro linguaggio comune, nonché del nostro modo di vedere il mondo. Rispetto a questi concetti, l’esperienza con gli archetipi ci porta a riconoscere, ad esempio, che non esiste un solo “io” ma “tanti io” nella stessa persona, quanti sono i possibili punti di vista o le “parti” attive nella psiche, e reimmaginiamo già il sogno come il luogo e l’occasione di incontro tra i vari “io” di ciascun oggetto, parte o persona onirica. Il sogno si presenta sempre col suo linguaggio implicito, fatto di immagini archetipiche che sono simboli e metafore. Un linguaggio che quindi non è prevalentemente esplicito come il nostro, ma che è più antico e universale, eterno e indistruttibile, fatto della stessa materia energetica di cui è fatta la psiche.

Ribaltando la visione freudiana di una psiche egocentrica, Jung ha scoperto quelli che lui chiama archetipi, ovvero l’essenza sostanziale delle forme sensibili. Per Jung, gli archetipi rappresentano anche le presunte forme primigene dell’universo: essi sono ovunque, dalle lettere in cui questa parola è scritta, alla forma di questo libro, agli elementi della stanza, della strada, del giardino in cui siete adesso. Voi stessi siete fatti di archetipi, e quello archetipico è il codice attraverso il quale l’anima del mondo comunica e si esprime. La nostra psicologia, che è archetipica perché si rifà ai concetti psicologici sviluppati da Jung e Hillman, necessariamente vuole ricondurre tutto a questa presunta sostanza invisibile della psiche come un’energia in cui siamo immersi e che muove tutto perché si trova ovunque, e fondamentalmente in nessun posto fisico preciso: esse in anima, come diceva Plotino. Jung riporta la psicologia nel suo campo autonomo di interesse e azione, molto più vicino a quello della filosofia e della metafisica, così come già avevano fatto Aristotele e Platone. Nonostante ciò, lo stesso Jung resta vittima della sua interna contraddizione, quella di essere sia uno psicologo del profondo che un medico, uno scienziato del suo tempo, e cerca man mano di muoversi nelle vesti dell’uno o dell’altro. Dal canto suo, già Freud aveva scongiurato i rischi che “la nera marea di fango dell’occultismo”, come ebbe a dire a Jung, avrebbe portato alla psicoanalisi, che voleva essere piuttosto un approccio positivista alla psiche, restando poi lui stesso vittima del suo dogmatismo. Nella Traumdeutung, il libro sull’interpretazione dei sogni che cambierà per sempre il mondo della psicologia del profondo, Freud aveva già intuito l’esistenza di contenuti psichici oggettivi, quelli che poi Jung chiamerà “Psiche Oggettiva”, e che lo portarono al nostro principale metodo analitico, quello dell’amplificazione del significato simbolico ontologico delle immagini. Ma tuttavia né Freud né Jung seppero uscire dalla personale esperienza per fondare un approccio altrettanto oggettivo ai sogni, che continuarono a usare secondo il proprio metodo soggettivo, ovvero utilizzando le associazioni personali sulle immagini oniriche in modo da lasciare l’interpretazione del sogno alla capacità del sognatore e dell’analista di saperne distinguere il significato tra la propria conoscenza delle immagini e le proprie proiezioni su di esse.

Data la vastità e la complessità della materia onirica, Jung non è riuscito a sistematizzare le proprie teorie in un metodo preciso, ma ha piuttosto preferito lasciare testimonianza del suo approccio al sogno e della sua pratica con le immagini attraverso più opere e saggi. Ancora oggi ci troviamo piuttosto lontani e dubbiosi circa la possibilità di avere un rapporto conclusivo nei confronti del significato e della funzione dei sogni, e la maggior parte degli analisti che conosco tendono a lasciarlo come opzione per l’ultima parte di una seduta, preferendo costantemente i fatti e i resoconti del diurno e procedendo nella loro analisi secondo approcci più razionalisti che immaginativi. Il sogno viene ancora utilizzato perlopiù a correlato delle proprie teorie e del giudizio sul paziente e la sua situazione, fino a seguire il classico procedimento medico che si regge sull’osservazione dell’atteggiamento e del comportamento del paziente, e sulla raccolta degli approfondimenti e delle prove empiriche per la verifica della tenuta teorica della nostra descrizione del caso clinico. Hillman ha sdoganato la presunzione di scientificità dell’empirismo della psicologia, riconoscendo ogni fatto psichico come archetipico, e quindi liberando gli psicologi dalla pretesa di validazione del proprio metodo. Ogni immagine è archetipica, per cui in psicologia ogni operazione è fiction e narrazione, in quanto ogni contenuto psichico può essere trattato come sogno e immaginazione. Questa “mappa”, tracciata da Hillman, forse perché apparentemente troppo semplice per essere facilmente considerata affidabile, purtroppo non è stata ancora sufficientemente capita e diffusamente implementata nella pratica clinica. Io stesso mi sia formato nella prima – e forse unica – scuola di specializzazione in psicoterapia riconosciuta dallo Stato ad avere un indirizzo dichiaratamente hillmaniano oltre che junghiano, la scuola Atanor in Abruzzo. Potrà sembrare un’affermazione forte, ma ancora dopo Freud e Jung abbiamo sempre più bisogno di uscire dalla violenza che ogni giorno facciamo all’anima, relegando ancora il sogno a epifenomeno della ragione e della coscienza. Hillman risolve in parte la polarità e il dilemma gnoseologico coscienza-psiche – che in Jung era io-inconscio – criticando l’antropocentrismo, il letteralismo e il moralismo ancora imperanti nei modelli psicodinamici e negli stessi analisti, riportando la psicologia archetipica all’interno della concezione platonica del metaxy e a quella corbiniana del Mundus Imaginalis. Ragion per cui, come vedremo, per Hillman ogni immagine è archetipica nella misura che è sempre materiale psichico immaginativo, e che quindi si costituisce come metafora o finzione della realtà empirica. Riprendendo la visione freudiana del sogno come “via regia per l’inconscio”, è proprio Hillman a restituire il sogno alla psiche e a costituirlo a paradigma epistemologico e a procedimento clinico di tutta la terapia.

Ma sono ancora pochissimi gli psicologi e gli psicoterapeuti che hanno letto Hillman e usano il sogno per conoscere il sostrato archetipico della psiche oggettiva, ovvero ciò che accade nella psiche. Ancor più sconfortante è la constatazione che nell’attuale cultura popolare il sogno viene perlopiù considerato come una storiella che il cervello crea di notte per qualche scherzo fisiologico, e questa concezione è rinforzata dal fatto che gli stessi analisti troppo spesso finiscono per attribuirgli un valore euristico limitato alla conferma delle personali intuizioni cliniche sul caso. Siamo ancora in pieno positivismo, e il modello scientifico costituisce la stessa impalcatura logica e razionale attraverso cui noi abbiamo imparato a inquadrare la realtà fenomenica della psiche. Così come noi oggigiorno, la nostra psicologia dimentica troppo spesso che dietro ogni cosa visibile c’è comunque in azione un’invisibile energia che non può essere compresa a meno che non la si descriva come metafora o simbolo. Gli antichi Greci la chiamavano psyché, energia vitale o “anima” dal termine latino. La ricerca che pretende di definirsi  “psicologica” tuttavia oggi si limita a descriverne e misurarne un effetto fisico, riportandola a una spiegazione di causa-effetto e relegando ancora l’anima nella black-box del comportamentismo. Questa forma di rimozione dell’anima dal mondo avviene in primo luogo ad opera di ogni cittadino, sarebbe a dire quando noi diciamo “hai fatto questo sogno perché è successo questo e questo”. Abbiamo poi – erroneamente – avuto conferma da Freud che persone e oggetti del sogno non sono chiari e logicamente incoerenti perché sarebbero fatti e ricordi che, per qualche processo di “camuffamento” della memoria, di notte ritornano in modo casuale e senza senso, come effetti collaterali del funzionamento della nostra coscienza e come compensazione della sua esistenza. Coloro che invece hanno visto nel sogno un valore evolutivo e adattativo lo hanno invece descritto come un’occasione per ripetere, come in un gioco o in un allenamento, azioni ed eventi della vita quotidiana, riportando sempre il sogno ad essere un correlato di ciò che noi già conosciamo di noi stessi, quindi nemmeno troppo interessante.

Ma chi conosce i sogni da vicino e li segue attraverso un percorso di vita con uno sguardo che sia veramente psicologico, volto cioè alla psiche come anima e non solo alla percezione, al comportamento e al concretismo, prima o poi si accorge che, se interpretato secondo l’analisi del simbolo, anche un sogno incomprensibile può invece diventare più che comprensibile. A volte basta una sola immagine a generare un insight, una visione interiore e profonda, o addirittura epifanica e illuminante. Lavorando poi coi sogni senza giudicarli immediatamente per quello che crediamo che essi significhino nella loro apparenza, a un certo punto cambia radicalmente il nostro modo di vedere e il nostro punto di vista sul mondo e su noi stessi. I sogni possono diventare “la vera vita” del sognatore, e si manifestano come un potentissimo strumento conoscitivo e divinatorio attraverso il quale riconoscere l’essenza dei fenomeni e delle cose del mondo da una prospettiva che ci trasformerà radicalmente. Dobbiamo oggi riconoscere che questa prospettiva, tanto ambita dagli psicoterapeuti quanto lo era dagli alchimisti e dagli stessi filosofi e fisici, è una visione psichica che ci guida, non razionale né soggettiva ma irrazionale e oggettiva, che può essere studiata e compresa nell’ontologia: ovvero nell’osservazione della struttura della realtà aldilà del materialismo e nell’essere e nel significato dei suoi contenuti come oggetti. Perciò in questo libro espongo un metodo di analisi che vuole infine attribuire un ruolo secondario ad ogni prospettiva che non sia quella della stessa psiche oggettiva e del sogno: non più quella dell’analista e del sognatore, ma quella degli oggetti psichici e delle immagini oniriche. Grazie a Hillman, siamo approdati così a un’epoca successiva della psicologia, quella in cui siamo in grado di praticare un’analisi ontologica del sogno e delle immagini oniriche come oggetti psichici. In questo senso, la nostra analisi segue un approccio oggettivista come prospettiva con cui guardare al sogno. Come metafora di questa prospettiva, Hillman ha proposto quella del “mondo infero”, ovvero un’ottica inversa rispetto a quella egocentrica e soggettivista. In questo senso e utilizzando il sogno come metafora di un mondo “altro” rispetto al nostro da cui tuttavia dipendiamo, il nostro approccio smetterà di pretendere di essere scientifico, ma il nostro metodo potrà essere costituito come neo-positivista in quanto viene rifondato sull’autonomia della psiche e sula sua ontologia. Un’autonomia che si allontana definitivamente dalle concezioni antropocentriche, umanistiche ed egocentriche che oggi dominano in psicologia e che, tuttavia, limitano l’analisi e impoveriscono irrimediabilmente il potere trasformativo del sogno, distorcendo l’essenza e il significato delle sue immagini proprio attraverso la loro interpretazione.

Affinché sia possibile coltivare un approccio ontologico al sogno e alla psiche, è necessario perciò fare un passo indietro e ricondurre la psicologia del profondo alla filosofia e alla metafisica, e portare avanti un procedimento analitico più riconoscente della psiche e più rispettoso della sua volontà rispetto alla nostra,  laddove fu lo stesso Jung a deviarlo dall’oggettivismo al soggettivismo per timore di non essere compreso dai suoi colleghi medici e di fondare la sua psicologia su delle basi insussistenti e non positiviste. Vedremo infatti che Jung, pur teorizzando l’esistenza della psiche oggettiva e riempiendo libri con le descrizioni di tutti i significati ontologici delle immagini archetipiche che andava man mano recuperando dalle sue ricerche sui simboli, scelse poi di procedere diversamente e lasciò delle indicazioni pratiche sull’uso dei sogni che riportavano la scelta del significato all’esperienza soggettiva e al contesto apparente del sogno piuttosto che all’oggettività psichica che presentavano le immagini oniriche. Invece, per vedere e capire un sogno dalla sua prospettiva bisogna mettere anzitutto da parte ogni personale aspettativa, altrimenti vedremo sempre le immagini oniriche in base al risultato delle nostre proiezioni su di esse. Mettendo da parte le nostre associazioni, o semplicemente usandole dopo aver usato l’ontologia delle immagini, vedremo infatti come il sogno non verrà più a dirci ciò che già sapevamo o credevamo di sapere, né ciò che a prima vista appariva lampante: ogni sogno sarà invece un’incredibile scoperta sulla nostra anima, e potrà essere visto come nuova conoscenza delle possibilità e potenzialità che abbiamo psichicamente a disposizione.

Con quest’opera, mi sforzo di cambiare la visione materialista del sogno in cui siamo finiti, e mi riprometto di fondare alcune basi pratiche per l’utilizzo del sogno in modo oggettivo. Capiremo perché, entrando in un sogno, noi non siamo mai nel mondo che comunemente conosciamo, ovvero quello della coscienza, ma in una dimensione a sé stante e che segue leggi ben diverse dalle nostre. Questa dimensione può essere effettivamente conosciuta soltanto attraverso una profonda comprensione della sostanza archetipica del mondo, e del sapere implicito che l’umanità da sempre si tramanda. Per questo motivo la nostra analisi del sogno sarà primariamente fondata sulla conoscenza dell’essenza dell’immagine in sé, e non su ciò che noi crediamo che essa rappresenti. Lavorando con l’ontologia del sogno, prima o poi si capisce – come già non solo Freud, ma gli antichi Egizi avevano fatto – che il sogno non appartiene al mondo materiale della coscienza, e che le energie rappresentate nelle immagini oniriche vanno ben oltre quelle individuali: sono energie che tendono, potremmo dire, all’assoluto hegeliano, ovvero alla totalità degli immaginari dell’inconscio collettivo, dell’inconscio individuale, della coscienza individuale e di quella collettiva. In un nostro sogno, soprattutto se siamo già in età adulta e abbiamo avuto una conoscenza abbastanza profonda del mondo e una comprensione del nostro ruolo in esso, possono presentarsi le immagini di ciò che accade in tutto l’universo. Ma come è possibile che ciò accada?

Qui ho sviluppato una forma di analisi archetipica del sogno che fonda le sue basi epistemologiche sulla psicologia archetipica di Hillman e sulla filosofia ontologica, che abbraccia e sviluppa la filosofia degli oggetti di Martin Heidegger e José Ortega y Gasset, e che trova in Graham Harman il suo principale esponente contemporaneo, rivalutando l’importanza dell’estetica e della metafora[4]. Il nostro metodo è semplice non perché sia una mappa semplicistica, ma perché è lo stesso metodo fornito dalle immagini oniriche al sognatore: nei loro simboli leggiamo la loro ontologia e non la nostra opinione su di esse, evitando così qualsiasi forma di ingerenza sul paziente e sul suo percorso individuativo. Essendo una realtà a sé stante, la psiche oggettiva non dev’essere scambiata per un epifenomeno della coscienza; purtroppo sono sempre più gli operatori che si avventurano nell’analisi dei simboli e del linguaggio della psiche con una formazione tuttavia minima sull’utilizzo della loro vastissima ontologia, e ancora peggio che lo fanno con la prospettiva della psicologia dell’io, quella di riportare tutto alla nostra volontà e alla coscienza. Gli psicologi che non credono nell’influenza degli archetipi, ma che credono più che altro nella propria volizione cosciente e nella nostra capacità di autodeterminazione, non hanno ancora capito il pericolo che corrono sottovalutando il lógos delle forze psichiche e puntando tutto sulla forza di volontà del soggetto. Non hanno capito che, per la psiche e dal suo punto di vista, “il problema” siamo proprio noi e la nostra mancanza di comprensione della psiche dal suo punto di vista. Rispetto all’universo e alle leggi della natura, la volontà e le credenze dell’uomo sono davvero ben misera cosa, e in psicologia dovrebbero essere considerati i side-effects di ogni intervento volto a rafforzare l’io invece che a ristrutturarlo. Ciò appare tuttavia ben descritto e confermato nella nostra pratica clinica raccogliendo in continuazione prove sull’esistenza delle patologie della psiche come fenomeni di contrasto proprio alla nostra azione cosciente e volitiva. Per questo motivo invocare nei pazienti l’uso della volontà e del libero arbitrio non solo è eticamente sbagliato ma pergiunta pericoloso, perché determina un rinforzo dell’eventuale inflazione dell’io, la hybris di cui parlavano gli antichi Greci come origine di tutti i mali degli esseri umani. Esiste invece un universo fatto di cose, gli “oggetti”, che sono a sé stanti, e che seguono le leggi della loro natura intrinseca. Gli psicologi dovrebbero essi stessi sottostare a un percorso di psicoterapia della durata di diversi anni, così come si fa nella maggior parte delle scuole di specializzazione in psicoterapia ad indirizzo psicodinamico. La terapia è necessaria a smontare le inflazioni degli stessi psicologi, ed è in grado di riportarli al ruolo che, come tali, essi dovrebbero assumere nei confronti dei pazienti, ovvero di “facilitatori” delle immagini psichiche, aldilà di ogni soggettivismo e personalismo. Un approccio alla psicologia che non sia ontologico ed estetico, e che eluda la conoscenza filosofica di ciò che è polivalente, immateriale e immaginativo, scadrà inevitabilmente in una psicologia concretistica dell’io invece di assurgere alla conoscenza dell’essere in sé e per sé, ovvero degli oggetti psichici.

Dobbiamo tornare a credere che i sogni, come qualsiasi contenuto psichico, abbiano una loro oggettività e rappresentino ciò che è presente e attivo nella psiche, così come crediamo che le lastre della nostra gabbia toracica o l’ecografia del nostro fegato diano immagini di ciò che accade nel corpo e che noi portiamo dentro. La psicanalisi di Freud durava anni proprio perché lo psicanalista non dava restituzioni e indicazioni oggettive ai suoi pazienti, ma li lasciava perlopiù parlare da soli con sé stessi, reiterando la loro riflessione nei ricordi del passato e nei contenuti personali attraverso le associazioni, non portandoli perciò, se non raramente, sul piano oggettivo e archetipico della psiche. È pur certo e vero che questa procedura attiva la riflessione dell’io sui propri contenuti psichici, e che in primo luogo il paziente ha bisogno di parlare senza interruzioni e di lasciar scorrere i contenuti della sua anima in modo da liberarli. Ma se poi essi non vengono ripresi uno ad uno e restituiti in un senso che sia veramente psico-logico – cioè non nella nostra logica ma nella logica della psiche – allora essi cadranno facilmente in preda all’oblìo, come al mattino succede coi sogni che abbiamo fatto di notte ma che non ricordiamo perché non gli attribuiamo particolare importanza. In questo libro vedremo in dettaglio quali sono le procedure da adottare, e non, per far sì che i contenuti psichici vengano dapprima riconosciuti e analizzati come oggetti nella loro ontologia, e poi ricondotti alla coscienza sottoforma di una finzione o metafora della psiche, nonché come acquisizione del loro significato. Per questo alla fine di quest’opera approderemo sempre più da vicino a una concezione e a un utilizzo del sogno come sincronicità o coincidenza significativa tra ciò che accadenel mondo delle immagini della psiche con il mondo della coscienza e delle rappresentazioni fisiche. Questo è forse il contributo più originale in cui la mia ricerca si è concentrata negli ultimi anni, nell’ambizione di poter riuscire a superare la comune concezione del sogno come effetto compensatorio di una causa agente di questo stesso mondo, e nello sforzo di riportare il fenomeno onirico alla sua funzione di pattern of behaviour, come Jung definì gli archetipi, ovvero come modello comportamentale della psiche che si autorappresenta in una forma di narrazione di ciò che facciamo e che possiamo fare rispetto ad essa. Se la psiche, attraverso il sogno, mostra i suoi modelli comportamentali attivi, non ci resterà che accettarli come oggetti “veri” di una realtà immaginativa che quindi esiste già come fiction di ciò che ci accade nella realtà fisica e nel concretismo. Lo scopo conoscitivo del sogno sarà allora proprio quello di instaurare una coincidenza di significato tra il mondo onirico della psiche e quello diurno dell’io, quindi l’analisi dovrebbe essere sempre soggettivamente vissuta proprio come l’incontro con l’oggettività psichica e la verità del suo significato narrativo. Vedremo insieme da vicino cos’è la sincronicità e in particolar modo quella che si offre tra il mondo onirico e ciò che noi comunemente consideriamo reale, ovvero come occasione per una profonda conoscenza di sé stessi e dell’universo in cui siamo immersi. Vedremo come attivando la sua funzione conoscitiva, la sincronicità del sogno è la stessa cura che la psiche ci offre per compiere il nostro destino in questo mondo: solo dopo aver riconosciuto l’esistenza numinosa e “divina” delle entità psichiche autonome e del loro significato simbolico, noi potremmo collegarle a ciò che abbiamo bisogno di sapere su noi stessi e sul mondo. Chiaramente, la sincronicità sarà la lettura personale e soggettiva del significato del sogno: ma un conto sarà farlo, come fanno tutti oggi, basando la lettura della sincronicità sulle proprie credenze meterialistiche e soggettive, un altro sarà invece farlo basandola sull’ontologia delle immagini oniriche.

Noterete, tuttavia, come non sarà possibile effettuare una lettura univoca del sogno, perché esso non è un prodotto dell’uomo, ma della psiche, e il sapere del terapeuta più saggio e più colto è come quello di un bambino in confronto al sapere che a lui il sogno offre nascondendolo aldilà di ciò che egli può vedere e riconoscere nelle immagini oniriche. D’altronde lo stesso sognatore che si crede il proprietario del sogno, presto scopre che il sogno in cui si ritrova fa parte di un sognare molto più ampio, e che proviene da un mondo dove egli stesso è immagine, energia e strumento attraverso cui essa cura sé stessa e in questo modo fa il suo corso nel mondo. Potrete essere in disaccordo con le mie letture dei sogni, e questo sarà in parte dovuto al fatto che essi sono sincronicità in cui il sapere del sogno è unito al sapere implicito del sognatore. In base a ciò, Jung era fortemente convinto che per usare il sogno in modo clinico occorresse conoscere la vita del sognatore. Come psicologo archetipico, posso essere solo in parte d’accordo: il sogno già “usa” noi stessi, chiunque noi siamo, attraverso il potere oggettivo delle sue immagini che a noi si offrono e ci chiamano ad esse, e ciò dev’essere sempre tenuto in conto. Come dirà Hillman, le immagini come oggetti psichici hanno una loro sensualità o capacità di attrarre la nostra attenzione, di nascondersi o di farsi notare ai nostri occhi, e ciò accade a prescindere dall’uso che poi noi ne facciamo. Lo stesso Hillman poi si ferma alla descrizione ontologica delle immagini oniriche senza lasciarci un esempio pratico di come applicare il metodo anche in terapia. Questa mia opera si pone lo scopo, forse ora troppo ambizioso, di colmare alcuni dubbi sull’analisi del sogno in psicologia archetipica, nonostante una lettura di Freud, Jung e Hillman sia comunque necessaria alla comprensione ottimale di questa materia. Se pensate di conoscere ancora poco di questi autori, potete usare questo libro per iniziare a scoprirli dal punto di vista della stessa psicologia del profondo e per approfondire lo studio dell’analisi del sogno. È altresì vero che nessuna psicologia può prescindere la personalità e l’esperienza del soggetto psicologico. Siamo immersi nell’anima, e ogni nostra narrazione sarà comunque una sua narrazione. Ragion per cui non sono riuscito ad esimermi dal mio personale approccio immaginativo e dall’utilizzo del materiale onirico emerso nella pratica clinica con i miei pazienti e dall’analisi dei miei stessi sogni. Questa trattazione vuole altresì essere un tentativo di segnare una via d’uscita dalla psicologia di Freud, Jung e Hillman, per formare delle premesse immaginali alle descrizione e definizione del sogno proprio come sincronicità o coincidenza significativa, partendo anche da ciò che ha avuto da dire la mia stessa opera onirica sull’argomento.

Essa risulta così articolata in quattro parti, che rappresentano altrettanti aspetti del sogno – archetipico, storico-culturale, analitico, fenomenologico. Descrivo l’aspetto archetipico in una “Genesi dell’opera onirica: tra dèi e dèmoni della Notte, del Sonno e dei sogni”, in cui presento la mia tesi daimonica sul problema del sogno, laddove, come disse Hillman, “gli scrittori sono personaggi delle loro stesse narrazioni”[5], e dove perciò mi faccio personaggio tra i personaggi di questa trattazione. L’aspetto storico-culturale è affrontato in una “Breve storia del sogno come storia”, seconda parte del libro in cui argomento il problema ripercorrendo la storia dello sviluppo della lettura e della narrazione del sogno, attraverso le teorie e le tecniche che sono state generate su di esso, e l’influenza delle varie culture onirocritiche. Nella terza parte, “Analisi del sogno”, vedremo più da vicino e metteremo a confronto le principali teorie e tecniche di analisi del sogno. In questa parte centrale all’opera arriverò a dare delle indicazioni per la pratica analitica, fino a proporre un esempio della tecnica dell’analisi ontologica in confronto con quelle tradizionali. Nell’ultima parte del libro approderemo finalmente alla fenomenologia de “Il sogno come sincronicità”, il contributo più innovativo allo studio e alla ricerca sulle immagini oniriche, e nel libro questa sarà una parte di scioglimento e riscatto del sogno come strumento storico ed etico, personale e collettivo, che viene imposto dall’anima al singolo allo scopo di psicologizzare il mondo.


[1] Cfr. C.G. Jung (1935), Pratica della psicoterapia, Opere vol.16, 1993, Bollati Boringhieri, Torino, pag. 10 e seg.

[2] Cfr. J. Hillman (2017), La giustizia di Afrodite – Aphrodite’s Justice, Edizioni La Conchiglia, Capri, pag. 15 e seg.

[3] Cfr. J. Frank (1961), Persuasion and Healing: A Comparative Study of Psychotherapy, The Johns Hopkins University Press, Baltimore, 1991.

[4] Cfr. G. Harman (2018), Ontologia orientata agli oggetti, Carbonio Editore, Milano, 2021.

[5] J. Hillman (1999), La forza del carattere, Adelphi, Milano, 2000, pag. 24.

(Immagine: Roberto Ferri, “L’Amore, la Morte, il Sogno”, olio su tela, 2017)

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