Partiamo dal presupposto che, di base, ognuno di noi sia bisessuale. La bisessualità, infatti, non dipende dal sesso e dalla sua determinazione, che come sappiamo avviene in tre momenti diversi dello sviluppo sessuale nel corpo: quello genetico nell’assetto cromosomico alla fecondazione, quello gonadico nel feto, e quello fenotipico nell’età infantile e puberale con la produzione ormonale specifica. L’orientamento sessuale ha invece fattori culturali e psicosociali che lo determinano in qualche modo. Se anche il clitoride e il pene derivano dalla stessa area embrionale, nasciamo e cresciamo uomini o donne ma sarà soltanto il nostro approccio immaginistico alla bisessualità dell’anima il fattore chiave per il nostro sviluppo psicologico. È l’energia psichica, infatti, che si presenta sia nei caratteri femminili (ricettività, accoglienza, contenimento, ecc.) che in quelli maschili (direttività, azione, ordinamento, ecc.). E continuerà a farlo per tutta la nostra vita.
Durante lo sviluppo psicofisico, una ripetuta associazione di categorie di valore (es. giusto/sbagliato, bene/male, ecc.) al comportamento e all’atteggiamento nei confronti della sessualità propria e altrui determina l’apprendimento di norme personali e sociali implicite che regoleranno inconsciamente il proprio orientamento sessuale. Ma siamo davvero fatti soltanto di stimoli e risposte, come i comportamentisti hanno sempre voluto convincerci? La psicologia dimostra anche altro. Il mito di Tiresia è estremamente interessante per il suo approccio psicologico alla sessualità: seppur incentrato sulla cecità del veggente, la sua storia parla soprattutto di bisessualità, della capacità di provare il piacere sessuale maschile e quello femminile, nonché dell’acquisizione di quella che chiamerò una “visione in trasparenza” della sessualità. È per questo motivo che, nel mito, Tiresia viene legato anche alle vicende di altri importanti personaggi mitologici come archetipi che regolano la nostra personalità: alla frustrazione di Ulisse, alla conoscenza della morte di Narciso, e persino alla conoscenza della verità su Edipo nel suo noto complesso. Vediamo in che modo.
Tiresia fu il più importante veggente della mitologia greca. Compare in numerosi episodi e in diverse opere di vari autori. La caratteristica più evidente di Tiresia è probabilmente la sua condizione di cecità: poteva vedere il futuro, ma era fisicamente cieco. Era proprio in questo modo che i Greci componevano il significato ultimo della tragedia umana rispetto al volere degli dèi: la loro ambigua volontà generava situazioni paradossali senza via d’uscita, nelle quali un dono implicava sempre un castigo, e un castigo implicava sempre un dono. Il mito dell’origine di Tiresia è uno tra quelli con più versioni disponibili: è probabile che ne esistano più di 15 diverse. Qui ci concentreremo su due delle più note. Entrambe coincidono sul fatto che il veggente fosse figlio di una ninfa, mentre differiscono sulla causa per cui divenne cieco e, allo stesso tempo, veggente.
Nel mito, essere figli di una ninfa significa essere semidivini e possedere le magnifiche forze selvagge e violente della natura, esserne soggetti e anzi rappresentarle e caratterizzarle. Sappiamo già che Tiresia è un’immagine di questa ambigua condizione che si riscontra in molti uomini fortemente attratti dal sesso, con una forte carica libidica e il bisogno incessante di mandare la propria energia fecondatrice nel mondo, non solo attraverso la sessualità ma anche attraverso il linguaggio, l’atteggiamento emotivo-affettivo, le attività creative o intellettuali, l’arte. Le persone soggette alla continua creazione e produzione di contenuti immaginativi vivono sotto il dominio dell’archetipo della Ninfa, per cui vengono costantemente attratti, sedotti e incuriositi dagli aspetti più “selvaggi” della natura e delle persone. Vuol dire che c’è una Ninfa dentro di noi, che costantemente ci attrae e ci distrae dai compiti logici e razionali, rapendoci nel mondo della fantasia e dell’immaginazione. Questa Ninfa come fantasia creatrice continua, per l’uomo, è sia un dono che un castigo, e bisogna imparare ad “usarla”.
Una versione del mito sostiene che Cariclo, la ninfa madre di Tiresia, fosse una delle amiche intime di Atena, la dea della saggezza (che tuttavia non era una ninfa). Le due erano solite fare il bagno nude in una fonte presso il Monte Elicona. Un giorno Tiresia si recò a caccia nella foresta e, senza volerlo, vide le due donne nude. Fin qui, questo mito trasfigura quello forse più noto di Artemide e Atteone, che mostra la terribile vendetta che la natura opera sull’uomo quando questi è attratto dalla sua bellezza e senza accorgersene ne rimane fascinato, e così travolto dal suo stesso desiderio. Ma il mito di Tiresia è ancora più preciso: la dea che punisce Tiresia non è infatti Artemide, ma Atena, colei che con “gli occhi di civetta” poteva vedere nel buio della notte. Atena qui rappresenta la forza della saggezza come potere occulto di vedere l’inconscio. Atena è una dea e può giacere con una ninfa, ma per sé di certo non il semplice uomo. Scoperta “nuda” con la ninfa, Atena si arrabbia per essere stata violata dallo sguardo di Tiresia, e lo punìsce immediatamente, privandolo della vista. È solo con la saggezza suprema, dice quindi il mito, che possiamo stare insieme alla Ninfa. Senza questa saggezza atenina, ne rimarremo accecati dal fascino e dal desiderio. La storia poi narra che Cariclo difese il figlio affermando che aveva semplicemente visto ciò che gli si presentava davanti agli occhi, senza cattive intenzioni. È la bellezza della (nostra) natura che costantemente ci seduce, l’uomo per sé non ne ha colpa ma ne è soggetto: questa è la tesi di Cariclo. Ma la legge degli dèi (e quindi della stessa natura) voleva che nessun mortale potesse vedere una divinità “nuda”, cioè cogliendola nella sua più intima natura. All’uomo non è concesso di carpire i segreti del cosmo, ma soltanto di onorarli e rispettarli, altrimenti ne rimarrà accecato. Motivo per cui Atena non restituì la vista a Tiresia, ma in compenso gli concesse il dono della chiaroveggenza e gli assicurò che non lo avrebbe perso nemmeno da morto. Il castigo è anche un dono: quello che ci porta a imparare a comprendere noi stessi e il mondo nell’aspetto non palese e invisibile. Che significa questo potere?
Il potere di Tiresia deriva dallo strazio della sua stessa natura libidica, una libido che diviene foriera di illuminazione. Dobbiamo infatti collegare la metafora della chiaroveggenza alla capacità di vedere interiormente le cose, di “sentirle” e ” intuirle” senza più soffermarsi sulla loro apparenza esteriore e superficiale: la “visione in trasparenza” di cui parla James Hillman, ovvero la capacità acquisita di vedere dal punto di vista psicologico o della psiche, oltre quello razionale-logico-concretistico. “Vedere in trasparenza” significa avere la capacità di cogliere il significato degli eventi e delle persone, perché le si vede direttamente nell’anima, così come è nell’anima del mondo che si possono vedere i meccanismi invisibili del cosmo. Un dono che anche gli alchimisti cercavano nella loro opus, e che si auspica essere l’obiettivo finale della nostra psicoterapia. L’esperienza fusionale e totalizzante della partecipazione mistica con la nostra natura libidica, come nell’esperienza estetica, estatica e dionisiaca, senza una reale comprensione del senso e del significato di quell’esperienza, ci “acceca” come l’uomo rimane accecato dall’oro e da ciò che luccica, dalla bellezza, dalla connessione profonda con la natura e con le persone, dall’intensità con cui si verifica l’esperienza, che diventa teofanica come quando facciamo uso delle droghe senza avere una certa consapevolezza su loro uso e sui loro effetti. Ed è proprio la libido, e la sessualità dell’uomo soggetto all’archetipo della Ninfa (per cui spesso anche quello di Pan, ad esso correlato) che lo spinge a questo tipo di esperienza profonda ma mai completa. Ma perché la natura ci spinge a perderci e impazzire per il corpo di una ragazza, per l’immagine di una persona o per un progetto creativo ambizioso, un’opera d’arte ambiziosa come esperienza totalizzante? E perché mai dovrebbe essere proprio l’esperienza materiale e concreta a cui manda la libido, proprio l’origine dello sviluppo della capacità di “vedere in trasparenza”, cioè ben oltre il materialismo?
La seconda versione del mito ci aiuterà a capirlo. Si narra che, mentre Tiresia camminava tra i campi sul monte Elicona, vide due serpenti attorcigliati tra di essi, un serpente maschio e una femmina, che si stavano accoppiando. Disturbato da quella visione, tentò quindi di separarli e li colpì con forza con un bastone, al punto da uccidere la femmina. A causa di ciò Tiresia divenne donna come per un incantesimo o una maledizione. Ovvero, per sette anni Tiresia ebbe un corpo e un sesso femminile, e godette di ogni dolore e piacere che una donna può provare per sua natura. Poi il destino volle che sorprese un’altra volta due serpenti intrecciati nell’accoppiamento, e li colpì di nuovo con un bastone. Questa volta uccise il maschio, e in seguito a ciò, Tiresia tornò ad essere uomo. La metafora che narra il mito è quindi quella di una doppia natura libidica, una maschile e una femminile. Il serpente è la libido, il simbolo della forza ctonia primordiale, che come la Kundalini nella concezione orientale, costituisce la potente energia che giace nel corpo dell’uomo e da esso sorge e risale investendo ogni funzione vitale. Psicologicamente, è un’energia occulta dai potentissimi risvolti per qualsiasi funzione psichica e in qualunque campo di esperienza. Visto nel cristianesimo come il simbolo della tentazione e del peccato, il serpente della libido è in realtà il nostro primo daimon, il dèmone che ci spinge come spirito-guida verso la soddisfazione del nostro bisogno e il compimento della nostra pulsione originaria, quello che caratterizza la nostra anima profonda.
Nel momento che Tiresia uccide il serpente femminile, egli lo incarna: l’incantesimo è la metafora del meccanismo della rimozione della pulsione e della sua proiezione sull’immagine di sé e degli altri, ovvero come Ombra. “Uccidendo” metaforicamente la sua sessualità femminile, ovvero rimuovendola ogni giorno, l’uomo è costretto a viverla involontariamente e inconsapevolmente, perché essa continuerà sempre a far parte della sua Ombra. Questo è quanto accade in tutti quegli uomini che rimuovono la propria pulsione femminile, e non considerano o non agiscono consapevolmente la parte energetica femminile della loro psiche che spinge per venire al mondo: essi sono costretti ad esserne agiti inconsciamente. Ad esempio nel tono della voce, nelle movenze e nelle fattezze femminee, fino al modo di vestire, di vivere o di pensare. Ad ogni modo, il mito ci dice che il modo in cui viene vissuto il sesso ne verrà totalmente condizionato, al punto da diventare “come una donna”. Vediamo un attimo in cosa ciò consiste.
Se sei un uomo e riscontri in te un modo “femminile” di vivere la tua sessualità, di trarre piacere e sentirti attratto da qualcuno, di fare l’amore o anche semplicemente di comportarti con gli altri, ad esempio se sei estremamente sensibile e umorale, se ti eccita più il senso diffuso della relazione o un’immagine romantica specifica, o ancora un’immagine specifica di un elemento del corpo di una donna o della sua azione, è probabile che tu sia agito dalla tua anima ninfica e femminile, e che ciò si riscontri maggiormente nel sesso e nel tuo modo di sentire e di essere ricettivo. Rimossa come possibilità dal proprio orientamento sessuale, la bisessualità dell’anima irrompe così come forza dell’essere femminei, fino a divenirne sintomatica, e ciò si osserva in una gran parte degli uomini che hanno difficoltà nei rapporti sessuali e nelle relazioni erotiche, o che sono costantemente “distratti” da immaginari erotici fino a non riuscire a concentrarsi su ciò che stanno sessualmente vivendo. Come si può uscire da questa condizione? Dopo sette anni in cui tuttavia Tiresia ha l’occasione di vivere il proprio essere femminile nel materialismo e nel concretismo, Tiresia ha di nuovo l’occasione di incontrare i due serpenti intrecciati e quindi di scegliere consapevolmente se accettarli o meno. Tiresia ha avuto ora modo di sperimentare appieno la sua potente sessualità femminile, e “uccide” cioè cancella quella maschile: è così costretto a “tornare uomo”, ovvero, metaforicamente, a incarnare la forza maschile dell’anima che egli ora rimuove. Gli è quindi possibile tornare ad essere un uomo pur conoscendo il suo essere anche donna nella sessualità e nella sua forza pulsionale. Il mito di Tiresia è quindi il mito della bisessualità dell’anima, che si fa orientamento bisessuale: Tiresia ora può vivere da uomo bisessuale e accettarlo, perché ne ha avuto l’esperienza concreta e consapevole del suo poter essere anche femmina. Ma perché a questo punto Tiresia diviene cieco?
Dopo gli incidenti avuti coi serpenti, Zeus, il padre degli dèi, e sua moglie Era iniziarono un’accesa discussione su chi provasse più piacere sessuale: se gli uomini o le donne. Giacché Tiresia possedeva entrambe le forme di sessualità, gli dèi lo consultarono in modo che contribuisse con la sua esperienza diretta alla soluzione del loro contrasto. Tiresia rispose che il piacere sessuale si compone di dieci parti: l’uomo ne prova solo una, e la donna nove. Quindi una donna prova un piacere molto più grande e differenziato rispetto a quello di un uomo: questo è il risultato dell’esperienza di Tiresia della sua sessualità femminile. Gli uomini consapevlmente bisessuali confermeranno che l’esperienza della loro forza femminile ha amplificato incredibilmente non solo le loro possibilità relazionali, portandoli ad avere esperienza con persone dalla personalità e dalle tendenze più diverse, ma anche che “sentono” e vivono il piacere e l’affetto in modo più differenziato e diffuso che non soltanto nella zona erogena del pene o nel far sesso sempre allo stesso modo. Oltre a guadagnare una maggiore consapevolezza di sé e delle numerose possibilità che la bisessualità della propria anima gli offre, sono notevoli anche i risvolti psicosociali: l’uomo bisessuale realizzato è eclettico e capace di mantenere relazioni anche lavorative di ogni sorta, perché attinge direttamente e contemporaneamente a una sorgente di energia di duplice natura. Ciò che inizialmente sembra un castigo, cioè la condanna a “non poter essere come tutti gli uomini normali”, si trasforma nel dono di saper cogliere le molte occasioni che la vita gli offre, persino la sensazione di vivere più vite in una sola. La dea Era, infuriata perché l’indovino aveva svelato un tale segreto, lo fece diventare cieco. Ma Zeus, per ricompensarlo del danno subito, gli diede la facoltà di prevedere il futuro e il dono di vivere per sette generazioni: gli dei greci, infatti, non possono cancellare ciò che han fatto o che è stato deciso da altri dei. La conoscenza della forza femminile nella bisessualità di Tiresia lo porta quindi alla cecità come al distacco dall’apparenza delle cose, e a una comprensione profonda della vita.
Il mito racconta perciò come il contrasto e la tensione tra l’energia maschile e quella femminile, una volta “svelato” cioè portato a coscienza, permette di raggiungere facoltà semidivine come quelle di una “supercoscienza”, come la capacità di “visione in trasparenza” come chiaroveggenza, attraverso cui possiamo essere in grado di prevedere la trama del destino e di guardare attraverso l’anima delle persone. Ciò può accadere solo al costo di rimanere “ciechi” al mondo diurno, quello dell’estetismo, del materialismo e del concretismo. Le facoltà psichiche e medianiche di Tiresia, così come la sua cecità, sono il risultato della sua conoscenza profonda della bisessualità intrinseca nelle forze dell’anima, e della tensione creativa e fecondatrice che queste forze esercitano nel loro eterno conflitto. Qui elevate a Zeus ed Era, cioè a proporzioni non più ctonie e infere come nei serpenti, ma a funzioni superiori o “celesti” come quelle dello spirito e della coscienza, l’energia maschile e quella femminile sono i due aspetti della stessa cosa: la fenomenologia dello spirito. Lo spirito è una forza pertinente al campo della coscienza, ma legata pure all’inconscio, che conduce in primo luogo a tutte le attività creatrici, le opinioni e le manifestazioni dell’individuo e del suo carattere più profondo. È quella forza che dà un determinato colore ai nostri atti di pensiero e di giudizio, nonché al nostro comportamento emozionale. In questo senso, lo spirito comprende sia l’intelletto che l’anima, legando assieme e sopraelevando l’uno a l’altra; come principio formativo costituisce il polo opposto all’informe e istintiva natura biologica dell’uomo, e mantiene desta perciò quella continua tensione di contrasti su cui poggia la nostra vita psichica. Jung considerava lo spirito come immagine archetipica che si eleva sopra la pulsione a suo simbolo. Considerando la sessualità in forma simbolica, cioè psichica, per Jung la psiche nasce quando la pulsione sessuale diviene immagine archetipica. Lo spirito è perciò una pulsione che diviene immagine, ma non un’immagine qualsiasi, bensì un’immagine “ordinatrice” delle altre immagini archetipiche.
Come Zeus, Padre e Dio, lo spirito diviene il principio ordinatore nella psiche. È il caso di quando un nostro immaginario psichico “ordina” gli altri e così ne determina l’attività psichica, ad esempio quando un nostro specifico pensiero ci fa eccitare, o l’immagine di un certo tipo di azione o persona ci dà un senso di benessere e realizzazione. In un senso più generale, lo spirito è il pensiero stesso e la ragione: Jung dirà che la ragione è un “superspirito” che si è sovrapposto al naturale spirito vitale originario, ovvero la pulsione, diventando un principio ordinatore cosmico, soprannaturale e sopramondano (Cfr. Jung, Fenomenologia dello spirito nella fiaba, Opere vol. 9*, pag. 204).
Sempre secondo Jung, la limitazione delle pulsioni mediante processi spirituali si afferma nell’individuo con la stessa forza e lo stesso successo che si constata nella storia dei popoli (Jung, Energetica psichica, Opere vol. 8, pag. 63). E cosa sarebbe lo spirito “se non gli si opponessero pulsioni a lui pari? Vuota forma e nient’altro”, precisa Jung. L’elemento spirituale dapprima appare nella psiche come un istinto o una pulsione, che poi determinerà una passione, un “fuoco divoratore” per usare le parole di Nietzsche. Non è un derivato di un altro istinto, ma un principio sui generis, cioè la forma comunque permanente ed ineliminabile della forza pulsionale. Lo spirito entra in competizione per la verità, continua Jung,
“non con le pulsioni ma con la pulsionalità, cioè con il predominio ingiustificato della natura. La sessualità non è soltanto una pulsionalità ma una forza indubitabilmente creatrice, che rappresenta, oltre alla causa fondamentale della nostra vita individuale, anche un fattore della nostra vita psichica che va preso estremamente sul serio. […] Potremmo definire la sessualità il portavoce delle pulsioni, ed è per questo che il punto di vista spirituale scorge in essa il suo avversario principale. ma non perché la dissolutezza della sessualità sia in sé e per sé più immorale del mangiare e bere smodatamente, o dell’avidità e della tirannia, della prodigalità, ma perché lo spirito fiuta nella sessualità un suo pari” (Jung, Opere vol. 8, pag 67).
Nella rimozione della bisessualità intrinseca alla sua natura, Tiresia è un uomo che dapprima rimane soggetto della pulsione femminile dell’anima, e ne rimane effettivamente soggetto nella sessualità. Ne conosce così gli aspetti più sinceri e profondi, per poter vivere poi la propria bisessualità liberamente ma soltanto a un livello spirituale, perché Tiresia stavolta uccide il serpente uomo, ovvero la pulsione sessuale maschile. Il livello spirituale della bisessualità è quello in cui essa si vive come idee e concetti, parole e immaginari archetipici di carattere pulsionale allo stesso tempo maschile e femminile. Ma attenzione, vivere la bisessualità nello spirito non è la stessa cosa che viverla come pulsione in modo concreto. Come Tiresia, noi possiamo scegliere di vivere o uccidere la nostra bisessualità così come essa si presenta a un livello pulsionale profondo – rifiutando il ligamen tra i due serpenti in un senso o nell’altro, cioè accettando solo la forza sessuale maschile o quella femminile e uccidendo l’altra. Ciò costellerà in noi l’archetipo di Tiresia, ovvero dell’uomo costretto a vivere e subire la propria parte di energia sessuale repressa. Ma quest’archetipo ha come scopo quello di portarci direttamente nella fenomenologia dello spirito, anzitutto perché saremo costretti a sublimare la sessualità repressa, spostandola su altri immaginari archetipici “ordinati” da esso. Ad esempio, nelle proprie attività estetico-creative (come nel modo di vestire, di ordinare la casa, di cucinare, di relazionarsi con gli altri) e nelle nostre attitudini morali (come nel nostro femminismo, nel nostro modo di aiutare gli altri, e così via). Il conflitto allora si estenderà, a nostra insaputa, tra Zeus ed Era, metafora della stessa fenomenologia dello spirito, e si riprodurrà nella nostra coscienza laddove, come nel mito, noi saremo consapevoli che il nostro essere inconsciamente donne sia il “superpotere” che ci porta a godere immensamente nella sessualità, ma che tuttavia proprio per questo ci renderà ciechi e insensibili alle cose mondane e materiali del mondo. È questo un aspetto noto a molte persone così come esso viene comunemente percepito nel sesso, ovvero in modo davvero intenso e differenziato. Tuttavia questo stesso modo può portarci letteralmente a perdere di vista il mondo terreno nel perseguire le nostre dionisiache fantasie libidiche. Se è dal sesso che parte la fenomenologia dello spirito, esso tenderà compulsivamente a tornare ad esso. La cecità per l’aspetto materiale della vita sarà allora la controparte necessaria della visione spirituale e divinatoria, quella “in trasparenza”, necessaria per la comprensione della complessità della vita e della sua essenza aldilà del vissuto della sessualità nella materia.
Tiresia fu protagonista di alcune delle più importanti storie della mitologia greca, che sono lo specchio narrativo di alcune funzioni psichiche fondamentali che operano nella fenomenologia dello spirito. Ad esempio, fu lui a predire un futuro infausto per Narciso. Quando la madre di quest’ultimo lo interrogò sul destino del figlio, l’indovino predisse che sarebbe vissuto a lungo, a patto che non guardasse la propria immagine riflessa. Possiamo immaginare che Tiresia sapesse già che Narciso era bloccato nella visione materialistica di se stesso e della sua bellezza, e che quella visione riflessiva “in trasparenza” che a lui era costata la vista, a Narciso sarebbe costata la vita. Qui Tiresia porta la consapevolezza spirituale della necessaria trasformazione nell’altro sé stesso per compiere fino in fondo il proprio destino e comprendere la propria bellezza aldilà dell’immagine che abbiamo (o non abbiamo) di noi stessi, e di quella che noi diamo agli altri. Tiresia allora non è altro che la capacità che noi abbiamo di vedere e “prevedere” i disastrosi effetti e il risultato del nostro narcisismo e del blocco attivo operato sul contatto della propria ferita. Ogni volta che l’autostima o l’importanza che si da a sé stessi è esagerata, attivare Tiresia significa attivare l’insight su se stessi e riflettere sulla propria immagine “allo specchio”, ma attraverso quella capacità di “visione in trasparenza” che non si ferma all’apparenza e all’estetismo, ma offre l’opportunità di vedersi per come si è veramente e di rendersi conto delle nefaste conseguenze del proprio materialismo.
Il veggente compare anche nella tragedia di Edipo. Il re decide di consultarlo a seguito di una pestilenza che aveva colpito Tebe. Poiché aveva interrogato l’Oracolo di Delfi, il quale aveva risposto che il male era dovuto al disonore causato dall’omicidio del precedente re Laio, e che se non si fosse purificato il crimine, la peste non sarebbe cessata. Edipo non sapeva di essere il figlio di Laio, né che aveva sposato la vedova, ovvero sua madre. Ecco perché Edipo chiese a Tiresia di rivelargli il nome dell’assassino di suo padre. Questi, inizialmente, non volle collaborare, ma alla fine cedette alla tortura a cui fu sottoposto, rivelandogli che lui stesso era stato l’assassino. Questi inizialmente non gli credette e lo accusò di malafede e malvagità, cacciandolo dal palazzo; ma successivamente comprese tutto, e si cavò gli occhi. La cecità autoindotta da Edipo al sapere che l’origine del proprio male si trova in sé stesso, è la cruda verità che Tiresia, grazie alla sua cecità come chiaroveggenza, rivela a Edipo. Il “complesso di Edipo” può essere definito come la struttura psichica in cui si organizzano i sentimenti amorosi e ostili che il bambino avverte nei confronti dei genitori, e dal cui superamento dipende, secondo Freud, il futuro profilo psicologico del soggetto. Ciò avverrebbe mediante l’identificazione interiore con la figura del genitore dello stesso sesso. La nevrosi, dunque, sorge dal conflitto tra due tendenze contrapposte, le pulsioni sessuali e quelle della coscienza, che determinerebbe quindi una scelta oggettuale, ovvero l’oggetto del desiderio erotico nel sesso contrapposto. Ovviamente, questa è la teoria della sessualità che Freud recupera nel mito di Edipo, e non è detto che sia la regola aurea dell’identificazione in un sesso o in un altro, né della formazione del proprio orientamento sessuale. Freud tralascia Tiresia che invece è parte integrante del mito di Edipo: nel senso che esiste anche un archetipo Tiresia o un’istanza spirituale che, a un certo punto nella vita, vuole farci vedere che l’origine inconscia della nostra scelta oggettuale deriva dall’ “uccisione” del padre, il nostro principio ordinatore omosessuale, e favore della madre, il principio eterosessuale. Tiresia è l’archetipo che ci fa “cavare gli occhi” e quindi accecare nel dolore e nella vergogna della nostra scelta oggettuale inconscia, ci fa quindi vedere ciò che noi non vogliamo, ovvero che come per il tabù dell’incesto, la bisessualità dell’anima è proibita dall’uomo a sé stesso, ed è all’origine di tutto il suo percorso sessuale e conoscitivo.
Anche qui Tiresia è l’archetipo della “visione in trasparenza” come insight o innervision, la “visione interiore” facilitata dal processo psicoanalitico. Ogni volta che nella nostra ombra giace una verità occulta, Tiresia la vede perché lui stesso sa e conosce cosa agita l’uomo nell’oscurità della sua stessa ombra, l’oggetto della sua stessa rimozione. Come nel bisessuale consapevole ma non dichiarato, Tiresia conosce i segreti della natura sessuale umana perché ne ha sperimentato il conflitto insito in sé stesso. Vive in ciascuno di noi un Tiresia, ovvero viviamo una parte della nostra anima in segreto, quella femminile negli uomini, e quella maschile nelle donne, sublimandola nello spirito. La conoscenza del potere occulto, del valore e del significato di questa parte dell’anima ci può schiudere a una “supercoscienza” come capacità di comprendere e vivere aspetti complessi e multipli dell’anima. una conoscenza più intima e spirituale del cosmo, e come facoltà di visione profetica di ciò che anima e tormenta l’essere umano. Ciò che così, nel suo eterno conflitto, ne determina anche le sorti e il destino.
(Immagine: Pietro Della Vecchia, Tiresia si trasforma in una donna, Museo di Nantes)
(Immagine di copertina: Charles Demuth, Dancing sailors, Pennsylvania, 1912)
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