La crisi esistenziale e relazionale dell’uomo e della donna moderni seguono la profonda trasformazione della morale che si sta producendo in tutto l’Occidente. Una nuova moralità cresce e si instaura sulle ceneri della cristianità, ovvero la civiltà ordinata e guidata dalla Chiesa, che da due secoli combatte per non morire, e lo fa nella psiche di ognuno di noi. Le quotidiane lotte per aver ragione nelle nostre discussioni, i paragoni e i confronti che facciamo tra diversi modi di essere e di vivere, l’instabilità della nostra razionalità oscillante tra la fede nella scienza e il bisogno di credere in valori e metodi radicati nella nostra natura, il continuo dubbio tra pensiero e sentimento, la necessità e la difficoltà di combattere per affermare sé stessi in mezzo all’assenza di valori socialmente strutturati e condivisi, la divisione tra il bisogno di una libertà individuale e quello di legami e sostegno: sono soltanto alcuni dei problemi psicosociali derivati dall’ inversione normativa in atto sin dalla stagione dei Lumi, e che ha avuto un culmine negli anni sessanta del secolo scorso. Vediamo dove siamo giunti e dove stiamo andando.
Dalla cristianità all’individuo
Come diceva José Ortega y Gasset, “i secoli moderni sono una crociata contro il cristianesimo”: ciò che si rifiuta è la cristianità come civiltà. Essa fu il frutto del cattolicesimo, religione olistica che sostiene una società organica, rifiutando a sua volta l’individualismo e la libertà individuale. Nel 1963 il Concilio Vaticano II riconobbe la libertà religiosa, ma ciò avvenne nel corso di accesi dibattiti interni. Oggi la stragrande maggioranza del clero e dei fedeli è legata ai moderni principi di libertà di coscienza e di religione, e non tornerebbero indietro, anzi: le affermazioni degli ecclesiastici sono sempre più “opinioni”, e non dogmi derivati da una interpretazione letterale dei testi sacri come invece era una volta. Ma è impressionante quanto la cultura cristiana abbia lottato, dopo l’Illuminismo e la Rivoluzione Francese, per non morire sotto le barbarie della cancel culture e del vento di libertà che hanno caratterizzato finora tutta l’era moderna. Vi furono diversi tentativi di adattare la cristianità alle idee moderne, come la corrente del cristianesimo liberale di Charles de Montalembert nel XIX secolo, ma questo secolo rimarrà nella storia come quello in cui si accanì la battaglia di personaggi come Juan Donoso Cortés e René de la Tour du Pin per reintrodurre la monarchia cristiana con leggi fondate sul cristianesimo e sul diritto naturale. Il potere della Chiesa, instaurato ufficialmente nel I secolo con vari concili a partire da quello di Nicea, aveva attuato una scrupolosa e manichea repressione della libertà, vedendo Satana in essa e considerando la società cristiana come perfetta per eccellenza su tutte le altre possibili – idee che oggi difficilmente avremmo il coraggio di affermare ancora. Alla fine del XX secolo il pensiero cristiano inevitabilmente si sviluppa nel tentativo di salvare l’essenziale e di adeguarsi alla modernità, tentando di integrare la democrazia e una forma di liberalismo nelle sue concezioni, e sperando che i fascismi-corporativismi potessero restaurare il cristianesimo sulla via della rovina. La rivoluzione fascista fu anzitutto una rivoluzione morale, o meglio che voleva ristabilire la moralità con la forza: un sussulto della cristianità morente. Oggi noi viviamo psicologicamente il retaggio della lotta della moralità cristiana contro la libertà individuale.
Dalla fede al simbolo
Dopo la Rivoluzione francese il deismo e l’ateismo si sono mostrati a volto scoperto, e da allora non hanno mai smesso di crescere. I riti religiosi hanno sempre più portato la disillusione e l’incredulità, l’atteggiamento di chi pratica senza credere, con conseguenze disastrose per la postmodernità, come il nichilismo. L’atteggiamento marraussista di spogliamento religioso dei gesti e delle abitudini ha così preparato il terreno per il grande simbolismo degli anni sessanta, contribuendo in modo sostanziale alla radicale rivolta dei costumi che farà crollare definitivamente la cristianità. La riduzione della verità di fede allo stato di simboli da una parte ci ha portato a un laicismo tecnicista nelle nuove forme di governo – che ad esempio induce i politici contemporanei a considerare di valore più che altro le iniziative volte a guadagnare o risparmiare il denaro a scapito dei bisogni culturali, psicologici e sanitari -, dall’altra ci ha riportato al paganesimo e alle religioni orientali prima che fosse ristabilita chiaramente una nozione di verità nel senso del sacro. Di conseguenza, la gente si muove oggi confusa nelle idee e nei principi, sedotta dal nichilismo e dal menefreghismo, vivendo distaccata dalla realtà della propria anima. Oppure lo stesso ateismo, risultante impossibile per la stessa costituzione umana – dopotutto infatti non è mai esistita una società atea ma quanto meno agnostica: non appena cade una religione, altri dèi di ogni tipo vengono a prendere il suo posto, ciò perché le società non sono fatte di pochi intellettuali ma di popoli, i quali hanno sempre avuto il buon senso di intuire che esistono dei misteri dietro la porta e che noi non siamo i padroni del mondo, ma ospiti su di esso. È chiaro, allora, che venendo a mancare la fede, restano rituali svuotati di senso e significato, e restiamo sotto il potere occulto dei simboli e delle persone che li utilizzano come status symbol.
L’inversione normativa
Sembra che il bisogno spirituale o religioso non sia destinato dunque a morire: gli esseri umani hanno bisogno di idee, di morali e di miti. Si tratta di quelle forze ctonie e istintuali della condizione umana che ci sfuggono da ogni parte, nonché dell’anima o della psiche. Come dapprima l’Illuminismo, il progresso delle scienze non ha fatto scomparire lo spirito religioso, anzi: esso è confluito in una nuova spiritualità, dove nuovi miti e ideali stanno emergendo, riaffiorando dal nostro passato o assimilati dalle culture e filosofie orientali. Basta dare un’occhiata ai corsi di yoga e meditazione, di buddismo e al taoismo; ma anche e soprattutto il culto ritrovato delle forze della natura, l’ecologia e l’ambientalismo, che sono entrate addirittura nella politica, nell’istruzione pubblica e nella sanità. La nuova era sarà l’età delle sapienza e del paganesimo, così com’era nel culto degli dèi greci, inevitabilmente riscoperti dopo il rifiuto della trascendenza monoteista. L’esperienza quotidiana ci conferma che nemmeno la morale si è estinta con la cristianità, anzi la morale oggi invade tutto: dalla politica all’economia, dai social ai talk show, dalla musica e le canzoni alla psicologia e alla medicina. A partire dalla seconda metà del XX secolo le nostre gerarchie morali si sono letteralmente capovolte: in una manciata di anni molto di ciò che prima era considerato un male è diventato un bene, e viceversa. Ad esempio, come dice la filosofa contemporanea francese Chantal Delsol,
“Nel mondo dei nostri padri la colonizzazione era generosa e ammirevole, la tortura e la guerra erano solo l’ultima risorsa; oggi la colonizzazione e la tortura sono gesti satanici, come lo è, in larga parte, anche la guerra. L’omosessualità era bandita e disprezzata, oggi non solo è giustificata ma anche celebrata. L’aborto, in precedenza criminalizzato, è legittimizzato e raccomandato. La pedofilia, precedentemente considerata come una soluzione di ripiego che si sopportava per la salvaguardia delle famiglie e delle istituzioni, è ora criminalizzata. Il divorzio, non molto tempo fa impossibile e poi difficile, non incontra più alcun ostacolo. Il suicidio era condannato (ai suicidi non si concedeva un funerale religioso), oggi è considerato come un possibile beneficio e le leggi in alcuni paesi possono aiutare a realizzarlo” (da “La fine della cristianità e il ritorno del paganesimo, Cantagalli, 2022, pag.31).
Dobbiamo intendere il momento storico che stiamo vivendo come sulla scia di una rivoluzione nei due ambiti fondanti dell’esistenza umana: la morale e l’ontologia. I nostri precetti morali e le nostre visioni del mondo si stanno rovesciando, e noi stiamo vivendo questa rivoluzione in prima persona, ogni giorno, quasi sempre senza rendercene conto. Ciò perché dagli anni sessanta stiamo vivendo un’inversione normativa, in modo analogo a quanto accadde nel IV secolo dopo Cristo, ovvero dal momento in cui Teodosio, a capo dell’Impero Romano d’Oriente, vinse Eufrasio, a capo dell’Impero Romano d’Occidente, nella battaglia del fiume Frigido, e dopo averlo ucciso impose il culto cristiano in tutta l’Europa, andando ben oltre Costantino che col suo editto nel 313 aveva sancito soltanto la tolleranza religiosa. Se la morale cristiana seguiva in parte quella stoica, aveva trasformato in verità dogmatiche alcuni suoi principi come la devozione, il matrimonio monogamo e la condanna dell’omosessualità, imponendoli come ortodossia.
“L’universo dei cristiani era l’inverso di quello dei Romani: essi introducevano un dualismo tra temporale e spirituale, tra il quaggiù e l’aldilà, tra gli uomini e Dio, mentre il mondo religioso antico era profondamente unificato. I Romani dovettero avere l’impressione di entrare in un mondo intellettuale e spirituale lacerato. D’altro canto, nel giro di pochi decenni, si opera un capovolgimento dei costumi.L’antica morale viene sostituita da un’altra. Nell’ambito di ciò che noi oggi chiamiamo il sociale – in altre parole i costumi – si produce un’inversione di valori. Tutto deve essere rovesciato” (pag. 36).
D’altra parte, il periodo rivoluzionario a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo può essere indicato come l’inizio della fine della moralità cristiana e dell’inversione normativa che stiamo ancora oggi vivendo. Oggi si dibatte ancora su leggi nei confronti delle quali i cristiani cercano ancora, a volte, di difendere la morale tradizionale, come nei movimenti pro-life e contro l’interruzione volontaria di gravidanza, mentre si stanno diffondendo in tutti gli stati occidentali leggi che permettono l’eutanasia, la procreazione mediamente assistita, il riconoscimento dei diritti LGBTQ+ e il matrimonio gay. Ma i cristiani non si oppongono più in modo dogmatico: argomentano a partire dalla natura, dalla legge naturale o da ragioni periferiche o pseudoscientifiche, perché il dogmatismo non è più considerato un argomento attendibile. Ecco che, ad esempio, entrano in gioco il parere degli scienziati e dei comitati etici; a volte, trovano alleati inaspettati anche in gruppi di psicanalisti freudiani o psichiatri privi di convinzioni religiose ma che, ad esempio, oggi ingrossano le fila dei cristiani nella lotta per la difesa della famiglia tradizionale o della paternità. Sembra che comunque siamo tutti coinvolti nella definizione di nuove norme che delineino una moralità post-cattolica che sia valida per tutti. Tuttavia, mentre stiamo andando verso una sempre maggiore libertà individuale, ci scontriamo ogni giorno col retaggio moralista del pensiero ortodosso cristiano, da una parte, e con la deriva dell’umanitarismo, la morale contemporanea tutta orientata al benessere dell’individuo.
Una nuova morale?
Un’inversione normativa è sempre troppo veloce e violenta affinché possa permettere un graduale passaggio a una nuova moralità all’interno di una visione antropologica. Cavalcando l’onda della rabbia e del desiderio di sovvertire il potere, nel rifiutare un modello attraverso la violenza si finisce per stressare il naturale processo evolutivo della coscienza umana, cosicché la coscienza di alcune personalità d’avanguardia, mosse più da bisogni e interessi personali che collettivi, finisce per instaurare un regime di lotta non solo a quello opposto, ma alla stessa coscienza collettiva. Ovvero, si finisce per rifiutare modelli culturali e tradizioni instauratesi attraverso i secoli e senza comprenderne il significato, e in più si finisce “per fare di tutta l’erba un fascio” (il doppio senso non è involontario). Se diamo uno sguardo alla morale contemporanea, ci rendiamo presto conto che è estremamente individualista: ciò che conta è il benessere immediato. Ad esempio, si rifiuta la pedofilia perché danneggia il bambino, ma non l’aborto che aggredisce un essere incosciente a beneficio di una vittima ben definita, la donna incinta. Per il benessere immediato dell’individuo, senza dubbio abbiamo legalizzato il libero uso del nostro corpo e delle nostre idee, della nostra immagine, dei nostri dati e delle nostre credenze, ad esempio attraverso l’uso di internet, dei social e dell’intelligenza artificiale, ma anche della prostituzione o della pornografia; e legalizzeremo al più presto l’eutanasia e la maternità surrogata, perché rispondono al desiderio individuale di morire o di avere un figlio – e per la madre surrogata basta il consenso. L’inversione normativa che oggi vediamo all’opera rappresenta il contrario di quanto avvenne nel IV secolo: è “un’inversione dell’inversione” (pag.45) dove si ripristina tutto ciò che la cristianità aveva abolito con la sua ortodossia. Questa doppia inversione ci sta riportando direttamente al paganesimo in vigore prima del cristianesimo, e forse a una versione ancora più antica quando, per esempio, difende la poligamia.
Fin qui tutto bene. Ma accade che parallelamente alla caduta dei principi cristiani che avevano retto e costituito una cultura estremamente repressiva, oggi si osservano i sintomi e i disagi propri della perdita di “una cultura” di riferimento. A differenza di quella cristiana per noi moderni, i Romani del IV secolo amavano la loro cultura e la difendevano pubblicamente. La cultura pagana non sarebbe crollata per negligenza o per disaffezione dei suoi seguaci, ma perché eclissata dal dogmatismo e dall’ortodossia cristiani che invadevano ogni modalità culturale di pensiero. Tuttavia, la scelta di una morale dipende sempre da una scelta ontologica, ovvero di alcuni principi essenziali da osservare e rispettare nella nostra esistenza. Non vi è praticamente alcuna scelta morale che non sia basata su delle credenze, che sono talvolta delle verità dogmatiche, anche se queste rimangono non formulate o inconsce. Ad esempio, si evitava il divorzio, o lo si vietava, perché si dava importanza all’amore monogamo e si credeva che la fedeltà e la stabilità familiare fossero più importanti della poligamia e della sessualità libera, mentre invece oggi si crede che l’amore non sia eterno e che l’essere umano abbia bisogno di vivere liberamente nel tempo la propria sessualità e i propri sentimenti. Oppure, l’aborto era proibito perché il feto era considerato come un essere umano, mentre oggi non crediamo più che l’interruzione di gravidanza sia un infanticidio (anche perché, come abbiamo detto, si crede nella soddisfazione del desiderio individuale nel presente, non più nel futuro e per il collettivo). O, ancora, la società era fortemente patriarcale perché tutti – sia gli uomini che le donne – credevano, come argomentò Aristotele, che non fosse la madre a generare e a trasmettere i caratteri genetici, ma il padre con il suo seme, mentre la madre più che altro era il “contenitore” che lo accoglieva e nutriva il feto in funzione della nascita.
Così, “liberato” da ogni credenza, l’individuo non ha più motivo per limitare la sua libertà e il suo desiderio individuali, e finisce per non credere più in nulla al di fuori di sé stesso – ovvero, si accanisce a difendere la propria morale personale o a cercarne qualcuna che gli funzioni. I nuovi costumi e le “leggi sociali” non provengono da un’anarchia né da un individualismo sfrenato, non dall’ateismo né dal nichilismo come alcuni psicologi vogliono far credere: questa “nuova moralità non credente” proviene dal fatto che l’uomo postmoderno non crede più nella morale di prima, e ha perso la fede nel Dio cristiano. Da una parte, non si vede più perché sia necessario imporsi leggi morali esigenti se non crediamo più nella morale dalla quale veniamo. Dall’altra, abbiamo un disperato bisogno di credere in qualcosa o in qualcuno, e la caduta dei principi cristiani è accompagnata, e in parte provocata, da una crisi di coscienza che si svolge come una messa in causa di sé sotto forma di un processo generale. Così come sono gli stessi cristiani, o alcuni di loro, a mettere in discussione la rigidità di pensiero ecclesiale, si osserva un fenomeno analogo nelle stesse famiglie, dove ad esempio il padre – che da sempre aveva fornito un’educazione autoritaria come figura di riferimento per l’affermazione di sé nella società – si vede ora messo al bando – assieme all’uso della forza e della violenza – nel generale processo al patriarcalismo. Più in particolare, se in un certo momento storico l’uso della forza – ad esempio insistere nella propria richiesta, alzare la voce o dare uno schiaffo – era non solo consentito ma creduto necessario a una comunicazione efficace, solo qualche decennio dopo è diventato un reato di violenza punibile con la reclusione, la cui futura imprescrittibilità è oggi oggetto di dibattito.
Spesso pensiamo che la legge – o l’etica – di oggi sia perfetta e che tutte le età e le culture debbano essere giudicate in base ai suoi criteri. Ma il fatto che l’individuo oggi venga prima dell’istituzione apre a scenari complessi che nemmeno il paganesimo forse prevedeva: è un ribaltamento dogmatico, anch’esso segno di una rivoluzione identitaria all’interno dell’istituzione stessa. in Italia, critichiamo l’assenteismo dello Stato e ricordiamo con nostalgia gli aspetti positivi del socialismo – oppure invidiamo i paesi dove esso ha trovato con un certo successo una qualche forma di implementazione, come la Catalogna. Dobbiamo comunque renderci conto che per cancellare la vecchia moralità, dobbiamo comunque passare da un’altra moralità, e questo è uno dei motivi dello stallo generale della politica delle riforme e di un continuo e acceso dibattito politico nel nostro paese: siamo alla ricerca di una nuova moralità in mezzo a tanti presunti di questi “dottori della moralità”.
Ogni civiltà si erge sul prestigio e sulla portata dei suoi principi fondamentali, che cerca continuamente di rinnovare per mantenersi attraverso i secoli. Se i popoli smettono di credere nei principi morali della propria civiltà, può accadere un tracollo politico-economico o un qualche disastro psicosociale, o entrambi. Negli ultimi due secoli abbiamo visto diversi esempi di questo tipo, come le guerre mondiali, l’olocausto, i disastri nucleari, i crolli delle borse e le varie crisi economiche e finanziarie. Per quanto ci riguarda, viviamo oggi un punto di rottura in cui le scelte ontologiche primordiali riguardanti il significato e il posto dell’uomo nell’universo, la natura del mondo o degli dèi, sono capovolte. Se le convinzioni durate per secoli crollano all’improvviso, le leggi e i costumi continueranno per qualche tempo senza più alcuna giustificazione – come abbiamo visto ad esempio a proposito di battesimi, comunioni, cresime e matrimoni, come un pò tutti i riti e le funzioni cristiane -, per la sola forza dell’abitudine. Ma ciò non potrà durare senza che alla fine non crolleranno improvvisamente sotto l’accusa di illeggittimità, lasciando il vuoto laddove fino a pochi anni prima c’erano importanti riti di iniziazione al proprio corpo, alla vita sociale e relazionale, alla vita pubblica e al mondo degli adulti, e celebrazioni di funzioni anzitutto psicosociali e psicoeducative anziché esclusivamente religiose. Tanta, forse troppa gente ha rinunciato a compiere dei passi fondamentali per il proprio sviluppo psichico, come il matrimonio, la maternità o la paternità, ma anche già la purificazione del proprio corpo dalle situazioni, dalle persone o dalle sostanze di dipendenza tossica, alcuni dei rituali che invece esistevano dalla notte dei tempi e che reggevano il benessere e la salute psicofisica dell’individuo e delle stesse società. Sono queste le conseguenze che stiamo osservando nelle generazioni più giovani.
L’ecologia come nuova religione
La messa in discussione della razionalità illuminista ha prodotto non solo la difesa della cultura storica e tradizionalista, espressione del Romanticismo nel XIX secolo, ma ancor di più la valorizzazione fino agli estremi della vita naturale. È dalle idee romantiche che riemergono impetuosi i miti e le tragedie antiche, così come anche i filosofi Greci e il neoplatonismo, fino ai nostri grandi psicologi Jung e Hillman. La vittoria delle forze naturali, attive e incoscienti, sulle forze umane pensanti è in parte erede di Nietzsche, e dopo un lungo e caotico percorso sfocerà, da una parte, nel nazismo, e dall’altra nel vitalismo di Klages, precursore dell’ecologia contemporanea insieme a Ivan Illich. Klages restituì all’anima il suo antico significato: quello di un principio vitale, come presso gli antichi Romani, e non più un’istanza immortale come invece era per i cristiani. E descrisse la storia come una lotta tra lo spirito (la razionalità) e l’anima, il principio vitale. Tutta l’opera di Klages è un omaggio alla vita naturale, un elogio della passività contro l’attività, dell’essere femminile contro l’essere maschile, dell’interiore contro l’esteriore, della natura contro la cultura, della realtà contro l’aspirazione all’eternità. La Terra stessa ha un’anima: ciò riporta l’antica idea del nostro mondo come un essere vivente (l’ipotesi di Gaia), mentre lo spirito occidentale, dominatore e scientifico, è un attacco spaventoso contro di esso, che porterà allo sterminio della vita sul pianeta. Da Klages fino ai nostri giorni, la corrente filosofica più affermata e attraente è una forma di cosmoteismo, panteismo o politeismo legato alla difesa della natura, all’ambientalismo e al riconoscimento delle forze naturali.
“I nostri contemporanei occidentali non credono più in un aldilà o in una trascendenza. E se immaginano un altro mondo in cui vivere un giorno, sono i pianeti lontani dove si potrà giungere con un’astronave supersonica. Il senso della vita va dunque ritrovato in questa vita stessa, e non al di sopra di essa, dove non c’è nulla. Il sacro si trova qui: nei paesaggi, nella vita della terra e negli stessi umani. A cavallo tra il XX e il XXI secolo, abbiamo cambiato paradigma facendo una nuova scelta di comprensione del mondo. Si è prodotta un’inversione ontologica” (pag. 69).
Vengono alla mente le parole di Pasolini “tutto è sacro”, o “tutto è santo” come fece dire dal saggio Chirone nel film Medea (1969): il poeta considerava sacro il mondo del sottoproletariato, ancora arcaico e religioso, in netto conflitto con l’eroico mondo razionale, laico, borghese e neocapitalista. Per l’ecologismo odierno non c’è più alcuna separazione essenziale tra l’uomo e gli altri esseri viventi, né tra l’uomo e la natura, che egli semplicemente abita senza dominarla e devastarla con una qualche pretesa di superiorità. D’altra parte il neo-paganesimo cosmico risponde alle preoccupazioni e alle esigenze dell’ecologia profonda, facendo sentire l’uomo a casa nel mondo, a differenza dal monoteismo che invece distaccava il sacro dal profano ed estraniava l’uomo da questo mondo immanente, facendolo aspirare all’altro, ideale e utopico. Proprio questo ci rimproverava Nietzsche.
“Va ricordato che la sacralizzazione della natura costituisce la base religiosa più primitiva e rudimentale, quella che viene, per così dire, da sola e in qualsiasi società umana. Nel momento in cui la difesa dell’ambiente si afferma come un dovere urgente ed evidente, la natura si vede allora sacralizzata, cioè messa al riparo, stabilita al di sopra, resa inviolabile. La nuova religione ecologica è una forma di panteismo postmoderno. La natura diventa oggetto un culto, più o meno evidente. La madre terra diventa una specie di dea pagana, non solo tra gli indigeni boliviani, anche tra gli Europei. Tanto che Papa Francesco oggi parla di “nostra madre terra”, in senso cristiano ovviamente, ma lasciando aperta l’ambiguità che permette il legame con le credenze contemporanee. I nostri contemporanei difendono in tutte le sue forme la natura denaturata dall’uomo, così come non esitano ad abbracciare gli alberi. Siamo in una fase in cui, nel vasto campo aperto della cancellazione del cristianesimo, le nuove credenze esitano e tremano: e soprattutto il panteismo che traduce in religione la difesa dell’ambiente” (pag. 73).
La moralità del mito
Nonostante la “verità” sia stata sottratta dalla scienza post-illuminista e positivista al dogmatismo monoteista, ancora oggi e sempre più ci troviamo in difficoltà nello stabilire cosa è vero e cosa è falso, e soprattutto nel concepire una nuova “verità” in cui credere dopo che quella cristiana è stata rifiutata. Ciò implica che la maggior parte del disagio psicosociale sia derivato proprio dalla mancanza di idee credibili di verità, ovvero di ciò in cui credere per dare senso e significato alla nostra vita e poter vivere serenamente compiendo il proprio processo di individuazione nel mondo. Se esaminiamo le recenti vicissitudini del concetto di verità, emerge sempre più evidente da parte dei moderni e post-moderni una ripresa degli antichi principi di verità, trasformandoli fino a “snaturarli”. L’uscita dall’era dei miti e l’ingresso nell’era della verità come dogma avvenne ad opera degli stessi filosofi Greci, che facilitarono i giudeo-cristiani nel far ascendere l’idea di una dimensione eterna, divina e idealmente “vera” a cui trascendere.
“Riguardo alle questioni cruciali delle origini e delle finalità della vita, dell’esistenza degli dèi e del destino dell’uomo, tra gli antichi predominava l’agnosticismo. I miti offrivano un senso per la vita, ma restavano delle narrazioni – e la verità rimaneva nascosta, se mai ce n’era una. Il regime giudeo-cristiano della verità è esclusivista e gli antichi, come del resto tutti i popoli, sono sincretismi per natura poiché vivono sotto il regime del mito e diffidano dall’esclusivismo che sembra loro pretenzioso. Nel IV secolo il maggiore difensore del paganesimo ormai declinante, lo scrittore Simmaco, secondo il quale “ognuno ha il suo modo di vivere”, scriveva: “Che importa la dottrina con cui ciascuno cerca la verità? Non esiste un’unica via per poter accedere a un mistero così grande”. La tarda modernità tornerà, secondo un percorso tortuoso, all’agnosticismo degli antichi, pur conservando taluni aspetti del concetto e dell’esperienza della verità” (pag. 84).
Nelle nostre dispute su di essa, la verità deve oggi cessare di essere proposizione o dogma: deve tornare ad essere “un alone di luce, una trepida speranza, una cosa inafferrabile che si attende con sogni da mendicante” (pag. 85). Mentre la nostra cultura ritorna a mettere insieme il sacro e il profano del paganesimo, lo fa tuttavia offuscando la separazione tra logos e mythos, e il logos (ovvero la ragione logica) ha finito per sfigurare la realtà sguarnendo la verità invece di rivelarla. Il cristianesimo, oggi, appare perlopiù come una narrazione, una mitologia piena di momenti radicalmente inventivi, come anni fa scrisse Milbank. Per scrollarci di dosso l’imperante nichilismo, dobbiamo liberarci anche dell’avida e calcolatrice razionalità moderna e favorire il ritorno al mito, rivestito di tutta la sua sacralità, e di tutti i suoi molteplici livelli di verità e significato. Per recuperare il “bello” e il “bene”, dobbiamo accontentarci dei miti, così che quasi non avremo più bisogno della verità – che resterà comunque fuori dalla nostra portata. Il mito è una metafora, un “come se” che si applica a molteplici situazioni della nostra vita quotidiana. In esso sono attivi e rappresentati gli archetipi, ovvero le forme energetiche primigenie della nostra esistenza psichica. Come scriveva Simmaco, “non esiste un’unica via per poter accedere a un mistero così grande come la verità”, ragion per cui smettiamo di accanirci nel cercarne una assoluta e godiamoci il passaggio in questo mondo senza aspettarne un altro, godendo del senso e del significato che ci donano i miti, così come le storie e le narrazioni di noi stessi e delle nostre esperienze. La verità, come la natura di Eraclito, “ama nascondersi”, e per svelarla occorre riflettere e iniziare un percorso di conoscenza di sé stessi, che può svolgersi soltanto attraverso l’immaginazione, il mito e la sincronicità tra la dimensione della materia e quella della psiche. E non a caso, il bisogno emergente negli ultimi anni è proprio quello di psicologizzare, oltre sé stessi, la natura e il mondo.
(immagine: Roberto Ferri, olio su tela)
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