Dalla notte dei tempi, portare una maschera significa giocare dei ruoli. Ciò che si indossa, l’ habitus in latino, significava proprio il ruolo che si rivestiva in una certa situazione. Il bambino che si veste da principe e la bambina da principessa, il benestante che si trucca da pezzente e il nullatenente che si maschera da Batman, l’impiegato che si diverte a travestirsi da donna e la manager da poliziotto, il timido che diventa audace dietro la sua maschera e il duro che si fa bambino ruggendo nel suo costume animalesco, il marito che si fa demone e la moglie che si traveste da strega, la ragazza che indossa orecchie e baffi da gatta e il padre che indossa la maschera di Putin; hanno tutti in comune l’obbedire per un giorno a Diòniso il dio liberatore, e così si liberano di desideri segreti, di fantasie proibite e di rimpianti rimossi.
Storicamente, i caratteri della celebrazione del carnevale hanno origini nelle dionisiache greche e nei saturnalia romani, feste in cui si realizzava un temporaneo scioglimento dagli obblighi sociali e dalle gerarchie per lasciar posto al rovesciamento dell’ordine, allo scherzo e anche alla dissolutezza. Da un punto di vista storico e religioso il carnevale ha da sempre rappresentato un periodo di festa ma soprattutto di rinnovamento simbolico, durante il quale il caos sostituiva l’ordine costituito, che però una volta esaurito il periodo festivo riemergeva rinnovato e garantito per un ciclo valido fino all’inizio del carnevale seguente. Prima del culto greco, nel mondo antico romano la festa in onore della dea egizia Iside, importata anche nell’Impero, comportava anch’essa la presenza di gruppi mascherati, come attesta anche Apuleio nelle Metamorfosi (libro XI). Durante le dionisiache passava il carro di colui che doveva restaurare il cosmo dopo il ritorno al caos primordiale, e Dioniso stesso era incarnato dal sacerdote che provvedeva ai misteri eleusini, sacri a Core e Demetra, in cui Diòniso simbolizzava il fecondatore della madre terra e dei suoi frutti, colui che con il suo potere rinnovava le ciclicità della natura e ristabiliva l’ordine naturale delle cose nel mondo. Vediamo quindi come Diòniso, come archetipo, rappresenta il fecondatore della psiche, il portatore di un nuovo ordine naturale e il liberatore dalle regole della ragione e dalla tirannìa dell’io.
Diòniso, dio del travestimento e del carnevale, era anche il dio del teatro, patrono degli attori e delle maschere. Ai bambini e alle gente del popolo, ovvero a coloro che non hanno un ruolo ben definito e affermato nella società così come a quelli esclusi dal potere, i travestimenti e camuffamenti sono sempre piaciuti. Il potere e chi lo detiene, invece, presenta già tutte le “maschere” dell’occorrenza e dei ruoli: pensiamo ad esempio alla toga dei giudici, alle divise dei militari, ai paramenti degli ecclesiastici, ai fregi, i titoli, le passerelle e così via. Pensiamo anche agli “eroi” quotidiani, coloro che ad esempio passano in tv, coloro che in qualche modo sono istituiti a status symbol come simboli di forza e successo. Ma pensiamo anche alle grandi forze della natura, agli animali come ai mostri dell’immaginazione, quelle forze viventi che hanno su di noi un potere che noi non riteniamo di avere, e che forse inconsciamente desideriamo. Le persone a cui non si rende possibile partecipare alla mascherata dei potenti, nel carnevale reclamano a loro volta il diritto di essere molteplici, e di manifestare quelle parti più nascoste e diverse da quelle incarnate ogni giorno, magari quelle più impressionanti, magnifiche o terrificanti. Per questo motivo il carnevale è una importantissima risorsa psicologica e una società perbenista che non saprà più fare il carnevale, che non promuoverà il travestimento e le feste in costume, che non rinnoverà i cicli naturali del mondo come con le dionisiache, impoverirà l’immaginario collettivo e perderà una risorsa determinante per la sua stessa evoluzione.
A livello personale e individuativo, indossare una maschera ha l’insostituibile valore del darsi l’opportunità di giocare un ruolo diverso dall’abitudine, ma sempre facente parte della propria personalità. Non importa quale siano le caratteristiche concrete della maschera o del costume: tramite il dio mascherato, il dio a cui piace giocare dei ruoli, si scopre, oltre al Diòniso delle feste e del carnevale, il nostro dionisiaco quotidiano. La caratterizzazione e l’agire dionisiaci sono il nostro teatro psichico in cui noi possiamo giocare ai ruoli che siamo chiamati a svolgere e impersonare nella vita di ogni giorno. Come i bambini, attraverso il gioco, apprendono a essere sé stessi in ogni parte della personalità, nelle varie situazioni e nei vari contesti sociali del mondo, è d’altra parte assurdo e insensato chiedersi se un bambino sia sincero quando gioca, così come per un adulto “mascherato” nel proprio ruolo. È un piacere tipico del gioco non doversi chiedere se si è sinceri oppure no. Così, come per il gioco che è dionisiaco, ci fa piacere trattare chi assume un certo ruolo e lo recita, se stia fingendo o se sia sincero. Se vediamo un prete con la veste talare o un vigile urbano in uniforme, non pensiamo che stiano fingendo e non siano sinceri, pensiamo piuttosto che si stiano comportando secondo il ruolo che hanno in quel momento, un ruolo anzitutto dichiarato dagli indumenti come mascheramenti. In generale, quando noi indossiamo una maschera non siamo per niente finti, e non possiamo mai fingere il ruolo che rivestiamo. Questo è il potere di Diòniso: quello di darci un nuovo ruolo, una nuova posizione psichica attraverso la maschera di un personaggio, e nello stesso momento in cui noi la indossiamo, quel nostro personaggio psichico può finalmente essere interpretato.
Grazie alle maschere, che nella storia esistono da sempre, il nostro teatro psichico è sempre stato conservato. E proprio il teatro è stato la prima forma, quella più spontanea, che gli esseri umani hanno inventato come psicoterapia. Ognuno di noi può diventare attore della propria anima, e come l’attore può entrare nella pelle dei propri personaggi psichici, purché si accetti di identificarsi con ciò che rappresenta la maschera. Persona, animale o divinità, il travestimento rappresenta un’immagine archetipica con il suo significato ontologico. Abbiamo bisogno di poter cambiare i nostri personaggi così come di riconoscere e impersonare le nostre caratteristiche archetipiche più differenziate, altrimenti nella nostra vita non c’è più gioco né divertimento, non c’è più movimento dell’anima, tutto diventa monotono e mortifero. L’approccio psicodrammatico di Moreno ha collegato le tecniche del teatro con quelle psicoterapiche, vedendo il nevrotico come uno che ha un repertorio di ruoli povero e sclerotizzato, e così impedito ad adattarsi alle esigenze delle molteplici situazioni sociali. Per aiutare il nevrotico a diversificare il suo repertorio di risposte comportamentali e avere accesso ai ruoli rimossi, Moreno ha sviluppato la fondamentale tecnica dello psicodramma, in cui i partecipanti a una seduta si dedicano a mettere in scena i loro conflitti e le loro tragedie personali, trovando la collaborazione degli altri partecipanti del gruppo per riconoscere e attuare i vari ruoli complementari. Il terapeuta conduce il gruppo e agisce come animatore e regista, permettendosi di entrare nel gioco per provocare ulteriormente il partecipante a inscenare ruoli diversificati o per suggerirgli “battute” diverse che potrebbero sciogliere il conflitto. Fritz Perls, con la sua terapia gestaltica, ha poi esteso il gioco psicodrammatico proponendo tutta una serie di tecniche di affabulazione: ad esempio invitando il paziente a inventare un dialogo con la madre defunta, o cambiando sedia per calarsi nel ruolo del personaggio con cui il dialogo evidenziava un conflitto. La tecnica della sedia vuota è a tutt’oggi utilizzata in numerosi approcci terapici e funziona in modo incredibilmente potente per far comprendere e accogliere a chiunque la prospettiva e il ruolo giocato anche dalla persona ritenuta più diversa, odiata o temuta. Le tecniche psicodrammatiche si fondono infine assieme a quelle immaginative nel nostro approccio analitico-archetipico, laddove Diòniso è l’archetipo che presiede l’esperienza analitica del recupero dell’immaginazione psichica e dell’espressività psichedelica, ovvero della prospettiva dello smembramento e della dissoluzione dell’io monolitico nei vari io del politeismo psichico. La nostra terapia è dionisiaca innanzitutto in quanto passa per la psicosomatica del corpo e costituisce una sua iniziazione archetipica, liberando una percezione più sottile dei fenomeni delle parti psichiche corrispettive agli organi come sue immagini, e ripristinando una consapevolezza della propria costituzione polipsichica e della divisibilità in molte parti e molti ruoli diversi.
Dal Diòniso dell’antichità greco-romana alla psicoterapia delle immagini psichiche, per capire oggi il senso del dionisiaco bisogna accettare il fatto che non è presente solo nel carnevale o nei rave party, nei momenti di rivoluzione o di grande dramma, di trasgressione orgiastica o nell’uso di sostanze stupefacenti, che invece sono modi in cui ci siamo abituati a ridurre la sua importanza e la sacralità della maschera, modi in cui cessiamo di riconoscere Diòniso come dio psichico, e quindi di istigare più che altro il suo lato tirannico e vendicativo. Diòniso non è certamente un dio della routine e della vita tranquilla, ma è zoé, ovvero l’energia della natura che scorre nel suo flusso continuo e incessante. Per questo motivo noi soffriamo quando passiamo giornate intere nello stesso posto e a fare le stesse cose. Ci saturiamo dello stesso stimolo, dello stesso ruolo o della stessa parte psichica, ovvero ci “esauriamo” psichicamente quando non viviamo la vita anche come un gioco. La sofferenza dovuta all’assenza – o all’inflazione – di Diòniso insiste magari proprio perché pensiamo che la vita non sia un gioco e che solo i fannulloni e gli imbroglioni giochino dei ruoli e portino delle maschere. Immaginarsi che dietro le maschere risieda ahimé il famoso “vero io” – questo modo di dire così sbagliato e ingannevole riferendosi a sé stessi e alla propria anima, credendo che ci sia un’immagine o una versione più vera di sé rispetto alle altre – è oggi la maniera più diffusa di screditare Diòniso e offendere il dio che permette il rinnovo e la differenziazione della psiche. Piuttosto, è l’esistenza e la possibilità delle maschere che permette di commettere quegli atti a cui l’io nevrotico o inflazionato non si lascerebbe mai andare se dovesse assumerne la responsabilità. Il rifiuto di Diòniso provoca oltretutto la sua reazione come tiranno, che ci distrugge nei festini del fine settimana, nell’uso esagerato di sostanze o nelle reazioni folli o violente.
Diòniso è presente nel cappello del capocuoco e nella toga del magistrato, nel vestito da sposa e nell’abbigliamento sportivo, nel completo elegante che indossiamo per andare a teatro o per partecipare a un congresso o a una riunione d’affari, nel camice da infermiere e persino nel pigiama da notte. È presente nell’ostentazione delle nostre mode e acconciature, nei gadgets, nella messinscena del nostro arredamento e nel design architettonico, nel bisogno che abbiamo di agghindarci ed essere guardati, di ostentare un certo nostro modo di essere e di veicolare messaggi e significati attraverso la loro messinscena teatrale. Ispira lo stile delle nostre crisi di pianto, dei nostri lamenti, delle nostre arringhe, delle nostre prese di posizione: insomma, Diòniso fornisce continuamente elementi per lo svolgimento delle nostre fiction immaginative, e per la caratterizzazione dei nostri vari personaggi interiori e ruoli situazionali, per la narrazione delle nostre storie e per la loro condivisione e significazione nel mondo. Ma duemila anni di censura cristiana del dionisiaco hanno portato con sé la separazione tra ciò che noi consideriamo la parte buona e autentica di noi stessi, e il nostro ruolo sociale, che è invece sempre legato alla maschera e quindi al riscatto delle parti di noi più ambigue, profonde e oscure. La liberazione dell’uomo moderno non sta affatto nel togliersi la maschera e sforzarsi di essere “seri” per essere finalmente liberi di sé: al contrario, è nella liberazione dall’ortodossia moralista che ancora vede la maschera come negativa e pericolosa, come nel ladro che la indossa per commettere un reato. Possiamo oggi riconoscere e ritrovare le nostre parti psichiche rivestendo la maschera per il suo antico e sacro utilizzo, quello rituale di creare e rinnovare una relazione tra colui che la porta e l’essere archetipico, l’animale o l’antenato, il dio o la dèa, che proprio dalla maschera è evocato.
(Immagine: maschere dal film “Eyes wide shut”, di Stanley Kubrick)
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