Jung definì le immagini quali dati primari della psiche, e l’immaginazione, popolata da tangibili immagini sensoriali, come la sua funzione autonoma primaria. La nostra essenza – ed esistenza – è fatta di ciò che immaginiamo, ovvero siamo definiti delle immagini che la nostra psiche ci manda, e sono esse a orientarci nel mondo e a definire come noi siamo chiamati a viverlo. Per Jung, le immagini della nostra immaginazione sono dunque fenomeni empirici, e non delle personificazioni di idee astratte. Il linguaggio della psiche parla in immagini che sono vere e proprie persone o personalità autonome che abitano la nostra psiche, così some lo sono i complessi. In questo articolo voglio aderire spassionatamente a questo particolare modo di fare psicologia, ponendomi l’obiettivo di riportare in vita il dio greco Pan, Fauno per i Romani, che alberga in ognuno di noi, ma di cui spesso ci vogliamo dimenticare, e che così ci viene a trovare sottoforma del sempre più diffuso attacco di panico, oppure di compulsioni, masturbazione e sessualità compulsive, nei casi estremi fino alla violenza, allo stupro o al raptus di follìa. La cultura occidentale si è consacrata al Dio cristiano come culto religioso ormai in decadenza, e archetipicamente al dio Apollo nella fede nella scienza e nel positivismo, relegando Pan nelle segrete dell’inconscio, ignorando il suo richiamo e sopprimendo le sue manifestazioni. Con la diffusione del Cristianesimo, l’istinto animale che abita nell’uomo, nella metafora di Pan, è stato deprivato dei suoi attributi divini e immaginali, e così incarnato e personificato nel Demonio, e non a caso il Diavolo cristiano ha le sembianze di Pan: le corna, la coda, il corpo nero, scuro, peloso. Siamo di fronte ad un nuovo gregge, il gregge di Cristo, che cominciò a seguire il suo pastore senza più poter manifestare liberamente i propri istinti e la propria forza creativa.
Pan non è morto.
Sappiamo che Plutarco situò il suo racconto sulla morte di Pan in una discussione che aveva come tema il silenzio degli oracoli nel tardo mondo antico, ormai pervaso dal Cristianesimo. Egli narrava ne “Il tramonto degli oracoli” che un grido percorse la tarda antichità: “Pan, il grande, è morto”. Il detto è divenuto oracolare; annunciava che la natura era privata del suo canto poetico. Essa non era più una forza indipendente e vivente di generatività. La forza creativa della natura che, grazie al contributo delle Ninfe, poteva sublimarsi nella forza creativa dell’arte, venne misconosciuta. Ciò che aveva avuto anima la perse, così come si perse la connessione psichica con la natura. Morto Pan, anche la ninfa Eco morì, ovvero la possibilità di catturare coscienza riflettendo entro i nostri istinti. Soprattutto, la natura perse la sua funzione ermetica di cui Pan, figlio di Ermes, è portatore. Quando Pan è vivo, è possibile trovare gli dèi e il divino nelle cose del mondo; in assenza di Pan, l’unico Dio rimasto è l’uomo che, sul modello di Ercole, controlla la natura a suo piacimento.
Ciò nonostante, partiamo dal presupposto che Pan non sia morto, bensì, rimosso. Pan vive nel rimosso che ritorna impunito; nelle psicopatologie dell’istinto che si fanno presenti negli incubi, e nelle qualità erotiche, demoniache e paniche ad esso associate. Ma, così come il Dio è il principale responsabile della pazzia, è allo stesso tempo l’unico a poterci liberare da essa. Il simile cura il simile, come dicevano gli antichi. Il mito di Pan è un mito in grado di ripristinare un rapporto armonioso con la natura dentro e fuori di noi; è un mito che, nella massima semplicità, intende rivelarci il segreto per l’integrità psicologica e la cura della malattia. L’invito implicito che sta dietro a queste righe riguarda una rieducazione del cittadino nei confronti della propria natura, che non può arrestarsi al livello di una coscienza ninfica.
L’intuizione di Pan in terapia.
La rieducazione di cui mi faccio promotore – e di cui parla Hillman – dovrà cominciare almeno in parte dal punto di vista di Pan e della sua intuizione, perché, dopo tutto, è suo il mondo dove appariamo più spesso turbati. Il mondo di Pan però include, tra le altre cose, masturbazione, panico, stupro, convulsioni e incubi. Pertanto, dice Hillman, il nuovo approccio del cittadino alla natura non potrà prescindere da un rapporto interamente nuovo con quegli orrori, deprivazioni morali e pazzia che fanno parte della vita istintuale della sua anima. Per comprendere correttamente l’approccio di Hillman all’intuizione di Pan, occorre innanzitutto prendere in considerazione l’ipotesi dello stesso autore riguardo possibili presenze “invisibili”[1]. Invisibile è tutto ciò che non possiede dimensioni misurabili. Hillman parla di Invisibili riferendosi per esempio a quelle numerose entità che, a nostra insaputa, ci accompagnano nella vita di tutti i giorni: le astrazioni della fisica che compongono la materia, le entità invisibili della Teologia, gli ideali, i valori, il Tempo. E’ curioso come tutti questi Invisibili, che diamo continuamente per scontati, sembrano invece avere un fortissimo ascendente su di noi, talvolta ancor più forte della realtà visibile: “Viviamo continuamente circondati da una folla di Invisibili che ci danno continuamente ordini: i Valori della famiglia, lo Sviluppo dell’Individualità, i Rapporti umani, la Felicità individuale, e poi un altro più spietato gruppo di figure mitiche, chiamate Dominio, Successo, Costo-rendimento e infine Economia”[2]. L’essere umano ha da sempre tentato, invano, di ingabbiare gli Invisibili in oggetti visibili, credendo che misurarli fosse l’unica via per avvicinarsi a loro e carpirli. Servendosi di varie strade – prima tra tutte la Psicologia, poi la Filosofia e la Religione – ha finito con lo scavare ancora più a fondo un baratro tra visibile ed invisibile[3]. Il nostro approccio, però, vuole essere differente.
Innanzitutto, il lavoro del terapeuta archetipico presuppone di recuperare quella che Hillman chiama “la base poetica della mente”: la psicologia si sviluppa quindi non tanto a partire dalla scienza, quanto dall’estetica e dall’immaginazione. Noi guardiamo alla realtà con sguardo poetico, liberando la coscienza dalla superficialità del letteralismo per rivelare le profondità sottese ad ogni esperienza. Il “fare anima” di cui ci parla Hillman è la trasformazione dell’evento in esperienza, ma oggetto dell’esperire non deve essere il dato letterale, bensì l’immagine. Il lavoro archetipico in terapia consiste in un lavoro alchemico di raffinata e paziente estrazione e distillazione, per ricavare dagli eventi le immagini che fanno emergere il senso e la ricchezza di ogni esperienza della nostra vita. Attraverso la penetrante acuità dell’immaginazione, la psicologia archetipica cerca di penetrare in profondità quei principi fondamentali di cui è fatta l’esperienza che gli antichi filosofi greci chiamavano archai, e che sono per Hillman le fantasie fondamentali che animano tutto il mondo. Per la Psicologia Archetipica, scrive Hillman, l’opus fondamentale della terapia non è tanto l’analisi dell’inconscio quanto la conservazione, l’esplorazione e la vivificazione dell’immaginazione e delle intuizioni che da essa derivano. “La psicologia archetipica non è una psicologia degli archetipi. La sua attività primaria non consiste nel far corrispondere temi della mitologia e dell’arte ad analoghi temi della vita. L’idea è piuttosto di vedere come mito e come poesia ogni frammento della vita e ogni sogno”[4]. Abbiamo quindi bisogno di un nuovo modo di guardare, di un modo immaginativo che parta da dentro l’immaginale stesso, cosicché tutto ciò che guardiamo divenga una metafora o esempio. Penetrando in profondità il linguaggio psicologico dei miti, abbiamo modo di vedere dentro e attraverso, afferrando la fantasia e eventualmente il potenziale immaginale della patologia.
Tornando agli invisibili, Hillman rivendica la necessità che questi ultimi mantengano la loro consistenza impercettibile, appunto invisibile. E’ infatti proprio grazie a questa loro peculiarità, che gli Invisibili possono insinuarsi in ogni dove e penetrare anche l’essere umano in profondità. L’io, dal canto suo, può trasformarsi in quello che Hillman chiama “Io immaginale”, diverso dall’Io cartesiano, basato sul cogito, o dall’Io volitivo, basato sulla volontà. Questo Io dovrebbe riuscire ad avere la capacità di “vedere in trasparenza”. Vedere in trasparenza l’Invisibile, significa, tra le altre cose, accedere a quelle zone d’ombra della psiche dove gli Invisibili hanno dimora: in termini archetipici, visitare quello che Hillman chiama il Mondo Infero[5]. Nelle profondità di quei luoghi, “i letteralismi” non possono sopravvivere. Il sovrano degli Inferi, il Dio del profondo e delle cose invisibili, è Ade. Lui stesso era invisibile. Si dice che non avesse né templi né altari nel mondo supero. Inoltre nell’arte greca non esistono rappresentazioni idealizzate di questo dio. Ade non aveva emblemi che lo raffigurassero tranne a volte l’Aquila. Il nome Ade stesso veniva usato raramente. Talvolta era chiamato “l’Invisibile” o sennò Plutone (“ricchezza”, “tesori”) o Trofonio (“colui che nutre”). Si rimanda dunque alla ricchezza nascosta dell’invisibile. “Ade non è un’assenza, ma una presenza nascosta, una pienezza invisibile, si potrebbe dire”[6]. Il mondo infero è un regno psicologico immerso in un eterno presente. Mondo infero e mondo quotidiano sono in perfetta simultaneità come rappresentato dalla coincidenza tra Ade e Zeus. La fratellanza tra Ade e Zeus suggerisce che mondo di sopra e mondo di sotto sono in realtà la stessa cosa; solo la prospettiva è diversa. L’universo è uno solo, consistente e sincrono; però se lo sguardo di un fratello lo vede dall’alto e attraverso la luce; quello dell’altro lo scruta dal basso, immerso nella sua oscurità. Poiché il suo regno era concepito come fine irreversibile di tutte le anime, Ade è la causa finale, lo scopo, il telos, di ciascuna anima e di ciascun processo animico. Tutti i processi animici, tutto ciò che è nella Psiche, muove in direzione di Ade. Ogni cosa, allora, procede in profondità, dai nessi visibili a quelli invisibili; lascia a poco a poco la vita per la morte. La via che ci indica la psicologia archetipica di Hillman è quella dell’esplorazione e dell’osservazione attenta e rispettosa dei luoghi e delle persone che abitano il mondo infero, per poterli conoscere e familiarizzare con loro.
Qual è ora, secondo Hillman, la funzione universale che ci consente di vedere in trasparenza l’invisibile? Ancora una volta la risposta risiede nell’Intuizione. L’Intuizione, il vedere in trasparenza, sono infatti il punto di partenza della psicologia stessa. Hillman infatti si immagina la visione in trasparenza come degli insight e mini-intuizioni. Descrive così il processo di psicologizzazione tramite l’Intuizione improvvisa, che ci permette di valicare il visibile e giungere al non apparente. Non a caso, nel linguaggio dell’alchimia, il processo di chiarificazione si accompagna all’uso di metafore di luce-barlume, farsi luce, lampo d’illuminazione. Quando la chiarezza è divenuta ovvia e trasparente, crescerà una nuova oscurità all’interno, un nuovo interrogativo o dubbio che richiede un nuovo atto di visione interiore, che di nuovo penetri il meno apparente. Il movimento diventa un regresso all’infinito, che non si arresta di fronte risposte coerenti ed eleganti. La psicologizzazione non si accontenta di soddisfare le condizioni necessarie e sufficienti della scienza o della filosofia. Essa si soddisfa soltanto del proprio movimento di visione in trasparenza fino in fondo e, per fare questo, ha bisogno dell’Intuizione.
Il movimento dalla superficie delle cose visibili a ciò che è meno visibile è un processo di approfondimento e interiorizzazione. Il valore ultimo, nascosto, che giustifica l’intero movimento può anche essere chiamato Dio nascosto, il quale si manifesta soltanto nell’occultamento. Il fenomeno che ci si presenta dinanzi verrà quindi narrato in un secondo momento e elaborato dalla fantasia attraverso un processo di mitologizzazione. Secondo questo prospettiva però, Intuizione non significherebbe più traduzione, non avrebbe più il significato di una riformulazione del discorso immaginale nel linguaggio psicologico – soprattutto attraverso la comprensione delle nostre fantasie e l’interpretazione dei nostri sogni. Lasceremmo che l’intuizione contenuta nella fantasia appaia autonomamente, nella sua espressione “intrinsecamente intelligibile”, penetrando in profondità il linguaggio psicologico dei miti. Infatti, per quanto ci sforziamo, non possiamo produrre intuizioni con la ragione o la volontà. C’è bisogno di qualcosa di immaginativo.
Il mito, in particolare, è una mescolanza di verità e fantasia poetica, e lo svanire dell’incerto attiene alla natura stessa del mito. “Quando un mito ci colpisce, esso sembra la verità e di colpo ci fa vedere le cose da dentro”[7]. La “sensibilità mitica”, ossia la facoltà di cogliere il mito che si cela dietro ogni cosa è quindi, secondo Hillman, ciò che consente di notare l’anima vivificante dentro la quale sono impiantate le nostre vite, che è dappertutto anche se ci ostiniamo a credere che sia invisibile. “Il mito è lo stadio intermedio inevitabile indispensabile, tra l’inconscio e la conoscenza cosciente”[8].Attraverso la prospettiva mitica percepiamo significati e persone, non oggetti o cose. I miti inoltre, parlano della psiche nel suo stesso linguaggio; parlano emotivamente, drammaticamente, fantasticamente. Attraverso il mito, i particolari concreti vengono universalizzati. I miti, come I’intuizione d’altronde, prescindono dal tempo, si sbriciolano quando li sottoponiamo a domande temporali. Ci parlano di universali mediante avvenimenti precisi che non sono mai avvenuti e che tuttavia avvengono sempre. La bellezza della metafora del mito è quella di eludere il letteralismo. Sappiamo fin dall’inizio che si tratta di realtà impossibili, ma sono appunto quelle della nostra anima, e per questo possono essere riconosciute come le più vere.
Il mito di Pan.
Il mito greco pose Pan come Dio della natura. Per circoscrivere il significato di “natura” in Pan, possiamo facilmente riferirci all’ambiente in cui il Dio si colloca, che è al contempo una metafora di un paesaggio interiore. Il luogo originario di Pan è l’Arcadia, conosciuta per le sue oscure caverne, caratterizzata da grotte, boschi, fonti e luoghi selvaggi e non da villaggi, insediamenti coltivati, civilizzati, né da santuari in templi edificati. Pan è notoriamente rappresentato come un satiro, fallico, irsuto, nero, rozzo, sudicio. Sono numerose le leggende che si narrano attorno alla figura del dio Pan. I lessicografici del mito indicano almeno venti origini diverse di Pan: Ermes, Zeus, Apollo, Odisseo, Crono, la compagnia di pretendenti di Penelope, Etere. Ma, come ci fa giustamente notare Hillman, se Pan, in quanto Dio della natura, è così diffuso e spontaneo, perché attribuirgli un’origine? Kerényi, in “Gli dei e gli eroi della Grecia” racconta come Pan fosse nato da Ermes e della ninfa Driope (o Penelope) che, subito dopo averlo messo al mondo, lo abbandonò tanto era rimasta inorridita dalla sua bruttezza. Era infatti Pan, più simile a un animale che a un uomo, in quanto aveva il corpo era coperto da ispido pelo; dalla bocca spuntavano delle zanne ingiallite; il mento era ricoperto da una folta barba; in fronte aveva due corna e al posto dei piedi aveva due zoccoli caprini. Ermes, impietosito da questo bambino al quale la natura non aveva certo fatto dono di alcuna grazia, lo avvolse in una pelle di lepre e lo portò nell’Olimpo. Qui gli venne dato il nome di Pan e a causa del suo strano aspetto, fu eletto protettore dei pastori (pan infatti deriva dal greco paein = pascolare). Ma Pan significa anche “tutto”, perché il dio era anche collegato allo spirito di tutte le creature naturali, dai monti agli alberi, dalle foreste agli animali del bosco. Gli Dei dell’Olimpo lo accolsero con gioia e benevolenza. Pan infatti aveva un carattere gioviale e cortese, e tutti gli dei si rallegravano alla sua presenza. Ciascun Dio infatti scopriva di avere un’affinità con Pan: in qualche modo egli li rifletteva tutti. In particolare, Dioniso, il dio dell’estasi e del vino, lo accolse con maggior entusiasmo tanto che divenne uno dei suoi compagni prediletti. Insieme facevano scorribande attraverso i boschi e le campagne, rallegrandosi della reciproca compagnia. Il fatto quindi che il padre e protettore di Pan fosse Ermes, conferisce alle azioni di Pan un aspetto “ermetico”; in altri termini, questi “cela” dei messaggi, e il suo fare ha una valenza metaforica. Inoltre il fatto che Pan fosse avvolto in una pelle di lepre, animale caro ad Afrodite, a Eros, a Dioniso e alla Luna, sta a significare la sua iniziazione nel loro universo. Quindi Pan era fondamentalmente un dio silvestre che amava la natura, amava ridere e giocare liberamente.
Pan è intrinsecamente legato alle Ninfe, con le quali costituisce un unico complesso archetipico. In preda all’amore e all’erotismo, insegue forsennatamente, le Ninfe, fino a stuprarle. La spiegazione etimologica e naturale che Rocher dà delle Ninfe, ne fa delle personificazioni di quei filamenti e banchi di nebbia sospesi sulle valli, sulle pareti montane e sulle sorgenti, che velano le acque e danzano sopra di esse[9]. Anche Omero dice che lì vivono le Ninfe; appartengono allo stesso paesaggio della nostra natura interiore di cui fa parte Pan. Molte Ninfe non avevano nome, erano esseri impersonali ed invisibili. Tra le Ninfe con un nome ritroviamo Siringa, figlia della divinità fluviale Ladone, della quale Pan si innamorò perdutamente. La fanciulla però non solo non condivideva il suo amore ma quando lo vide fuggì inorridita, terrorizzata dal suo aspetto caprino. Corse e corse Siringa inseguita da Pan, e resasi conto che non poteva sfuggirgli, iniziò a pregare il proprio padre perché le mutasse l’aspetto in modo che Pan non potesse riconoscerla. Ladone, straziato dalle preghiere della figlia, la trasformò in una canna nei pressi di una grande palude. Pan invano cercò di afferrarla, ma la trasformazione avvenne sotto i suoi occhi. Afflitto, abbracciò le canne ma più nulla poteva fare per Siringa. A quel punto recise la canna, la tagliò in tanti pezzetti di lunghezza diversa e li legò assieme. Fabbricò così uno strumento musicale al quale diede il nome di “siringa” (anche noto come il “flauto di Pan”) dal nome della sventurata fanciulla che pur di non sottostare al suo amore, fu condannata a vivere per sempre come una canna. Nelle Metamorfosi, Ovidio narra come “la ninfa, sorda alle preghiere, fuggisse per luoghi impervi, finché non giunse alle correnti tranquille del sabbioso Ladone”; come “qui, impedendole il fiume di correre oltre, invocasse le sorelle dell’acqua di mutarle forma”; come “Pan, quando credeva d’aver ghermito ormai Siringa, stringesse, in luogo del suo corpo, un ciuffo di canne palustri e si sciogliesse in sospiri: allora il vento, vibrando nelle canne, produsse un suono delicato, simile a un lamento e il dio incantato dalla dolcezza tutta nuova di quella musica: «Così, così continuerò a parlarti», disse e, saldate fra loro con la cera alcune canne diseguali, mantenne allo strumento il nome della sua fanciulla”.
Un’altra era Pitis, la ninfa del Pino. Pan porta spesso una corona di pino o un serto fatto d’abete. La pigna invece appare spesso insieme a Dioniso, quale “simbolo di fertilità”. Un altro amore di Pan era Eco. Lei abitava le forre ed aveva occhi solo per Narciso, il quale però la rifiutava preferendo a lei le gioie della propria riflessione. Adirato per non essere corrisposto, il dio caprino suscitò la follia dei suoi pastori che presero la sfortunata ninfa e la fecero a pezzi; da allora le membra di Eco, sparse per la campagna, risuonano ovunque lamentosamente. Un’altra ancora era Eufeme, nutrice delle Muse. Lei e Pan diedero alla luce Krotos. E ancora, Selene, dea della Luna, di insuperabile bellezza. Per conquistarla Pan dovette dissimulare le sue parti nere e irsute sotto un vello bianco.
Le compulsioni di Pan.
Il rapporto di stupro e riflessione tra Pan e le Ninfe è molto importante nell’analisi complessiva del mito. In quanto Dio di tutta la natura, Pan personifica per la nostra coscienza ciò che è completamente e soltanto naturale, il comportamento nel suo corso massimamente naturale. La genealogia oscura di Pan rimanda all’origine sconosciuta dell’istinto. Infatti l’esperienza di Pan sfugge al controllo del soggetto volitivo e della sua psicologia egoica. Pan si manifesta nella natura fuori da noi con suoni e non con parole e, nella natura dentro di noi, con una reazione improvvisa. Per quanto concerne il comportamento istintuale, ciò che più strettamente appartiene a Pan è la coazione, una reazione del tutto-o-nulla; ma Pan è allo stesso tempo il mezzo mediante il quale la coazione può essere trasformata, come vedremo più avanti, attraverso l’immaginazione.
L’ora di Pan era sempre il meriggio. In questo modo egli appariva nell’impeto e nel fulgore del mezzogiorno. Il culmine meridiano, lo zenit del giorno sta a rappresentare il punto più alto della potenza naturale, che costella la forza vitale ma anche il suo opposto: è il momento in cui “io e la mia ombra siamo uno”[10], e in cui la natura si esprime nella sua massima spontaneità. Pan è quindi l’archetipo dei processi spontanei che, nell’essere umano, corrispondono ad esempio a esperienze quali il presentimento, l’intuizione, il sentimento misterioso, persino la profezia. Ma ritroviamo Pan anche nell’incubo, nella paura panica, nella masturbazione, nello stupro e soprattutto nella malattia mentale. L’assegnazione della masturbazione a Pan fornisce un paradigma per quelle esperienze che chiamiamo istintuali in cui coazione e inibizione si congiungono. La masturbazione, infatti, coniuga due aspetti dello spettro istintuale: da una parte l’impulso; dall’altra la coscienza morale e la fantasia che accompagnano e deviano l’impulso. La masturbazione è così libera di seguire Pan, che “l’ha inventata”, nel piacere sfrenato, senza condannarla come psicologicamente regressiva, ma dandole significato in quanto sanzionata dalla divinità. Nello stesso modo in cui la masturbazione ci connette con Pan come capro, ci connette anche con la sua altra metà, la parte superiore della funzione istintuale, ovvero l’autocoscienza. Inoltre, essendo l’unica attività sessuale eseguita da soli, non possiamo giudicarla semplicemente in funzione del servizio che rende alla specie o alla società.
Lo stupro, infine, esemplifica anch’esso il rapporto tra patologia e mitologia. Lo stupro è caratteristico di Pan: è il suo primo modo di manifestarsi alle figure femminili, che provoca la loro fuga e la sua frustrazione. Lo stupro delle ninfe esprime l’essenza immediata, diretta e risoluta della divinità nel regno degli avvenimenti naturali. Lo stupro rivela la necessità coatta che sta dietro e dentro ogni forma di generazione. Quanto più si è vicini al mondo della natura materiale, tanto più il potere divino si manifesterà in forma sessuale e coatta. Lo stupro è il paradigma della penetrazione e fecondazione divina resistente al mondo della materia. Dal punto di vista psicologico, lo stupro può essere interpretato come sintomo di un comportamento estremamente letteralizzato, perdendo di vista la metafora, che, come sappiamo, mantiene la vita psicologicamente intatta. E’ quando manca la visione del Dio nel comportamento, che lo stupro diventa soltanto psicopatologico. Nella costellazione di Pan con le sue Ninfe, lo stupro situa la pulsione del corpo verso l’anima in una metafora concreta. Spinge l’anima alla concretezza. Mette forzatamente fine alla divisione tra comportamento e fantasia, violando la privilegiata distanza dell’anima che vorrebbe vivere la vita attraverso la riflessione e la fantasia. Gli stupri di Pan non sono aggressioni, bensì coazioni; non intendono distruggere l’oggetto quanto piuttosto possederlo. Lo stupro rappresenta quindi il tentativo di passare da un livello ad un altro, di portare sesso e morte a una parte dell’anima che è completamente refrattaria a questo tipo di realtà.“Pan che insegue la Ninfa” è quindi un altro modo di rappresentare il comportamento che cerca la fantasia per acquietare la coazione. Allo stesso tempo, la repulsione della “vergine” rappresenta la paura che la fantasia ha di essere costretta in un comportamento fisico. Tuttavia la violazione della vergine è inevitabile quando il divario tra fantasia e comportamento è eccessivo, e allora, la “giustapposizione genitale” permette di riavvicinarli.
La pazzìa che libera dalla pazzìa.
Per quanto riguarda la malattia mentale, Pan è da sempre il Dio che porta alla pazzia, ma che per questo può anche liberarci da essa. E’ una di quelle poche figure della mitologia greca a cui era direttamente attribuito il disturbo mentale. Pan sembra responsabile sia della manìa che dell’epilessia; Pan regna sugli stati ipomaniacali, sulle coazioni sessuali e sull’attività ipermotoria, sugli attacchi improvvisi come il panico, gli incubi, le operazioni mantiche (glossolalia), ma allo stesso tempo guarisce attraverso gli attributi della musica, del fallo, della visione d’incubo, della visione mantica. Per opera delle Ninfe, particolari località risanano e benedicono. Pan è perciò anche in grado di soccorrere e proteggere[11].
Il rapporto tra Pan e le Ninfe si esemplifica nello stupro. Lo stupro messo in atto da Pan ha come obiettivo una forma di coscienza indefinita, ubicata nella natura ma non ancora incarnata in una “persona”. Quindi la Ninfa è ancora attaccata ad alberi, fonti, caverne, foschie di cui ne rappresenta lo spirito; essa è casta e vergine, natura ancora inviolata. Pan è invece colui che porta il corpo, un corpo caprino, e che impone una realtà sessuale a una struttura di coscienza che non ha una vita fisica personale. L’impersonale penetra dal basso, nella parte più segreta del corpo, portando alla consapevolezza, sotto forma di un’esperienza personale. La verginità delle Ninfe è necessaria e appare sempre in associazione allo stupro. Da una parte “l’intatto”, cioè una coscienza priva di sensi corporei; dall’altra colui che tocca, il tattile. Gli amori tra Pan e le Ninfe ci dicono che la natura istintuale stessa brama ciò che la renderebbe consapevole di sé. Il più forte desiderio della natura “dentro di noi” è di unirsi con se stessa nella consapevolezza.
Altro elemento che Pan ottiene dall’incontro con le Ninfe è, infatti, la “riflessione”. La coazione sessuale di Pan sembra tutta diretta verso il fine della riflessione. Hillman ci dice che “le nostre riflessioni sulla nostra vita impersonale, oscena, sulla nostra laida sessualità e la vita che ne traiamo sono echi in noi della ninfa”[12]. La riflessione (reflexio) è infatti il corrispettivo psicologico della fuga: il ripiegarsi all’indietro e via dallo stimolo, per riceverlo indirettamente attraverso la luce della mente. La riflessione libera il comportamento dalla coazione forzata. La riflessione rimette in scena il processo di eccitazione e trasforma lo stimolo in una serie di immagini che, se lo stimolo è sufficientemente forte, vengono poi riprodotte in una certa forma di espressione, come un’opera d’arte. Secondo Jung, la riflessione è l’istinto culturale per eccellenza: attraverso l’istinto riflessivo, lo stimolo viene più o meno interamente trasformato in un contenuto psichico. La riflessione in Pan, essendo insita nell’erezione e nella paura, è una consapevolezza legata alla natura, ma anche profetica, intuitiva e lungimirante. “E’ una coscienza che si muove circospetta nella saggezza della paura attraverso i luoghi deserti dei nostri paesaggi interiori, dove non sappiamo che direzione prendere, senza un sentiero, il nostro giudizio fondato soltanto sui sensi senza mai perdere il contatto con il gregge dei riottosi complessi, delle piccole paure e delle piccole eccitazioni”[13].
Quanto detto finora ci induce a interpretare il processo dell’Intuizione, così come detto prima, secondo il complesso archetipico di Pan con le sue Ninfe. Sappiamo da Hillman che, grazie all’Intuizione, l’essere umano può cogliere “l’invisibile” che è dentro di lui e in ogni cosa; lo spirito che si cela nella materia, l’anima. L’intuizione crea un ponte tra il regno del visibile, che è legato al corpo, alla natura biologica, e quindi anche alla dimensione pulsionale e istintuale, e quello dell’invisibile, che nell’individuo corrisponde alla dimensione immaginale, fantastica, metaforica, artistica. In un linguaggio più junghiano, potremmo anche dire che l’intuizione permette alla coscienza di comunicare con l’inconscio e, viceversa, all’inconscio di arricchire con i suoi contenuti sorprendenti la coscienza.Abbiamo visto come lo stupro rappresenti nel mito di Pan la ricongiunzione di materia e spirito in un atto generativo, riflessivo che produce autocoscienza. Il corpo, rappresentato da Pan, può finalmente avere un’anima, la Ninfa.
Lo stupro delle Ninfe da parte del Dio Pan, può, secondo questa prospettiva, rappresentare metaforicamente l’Intuizione stessa, ovvero quel processo che è in grado di ritrovare lo spirito, la scintilla, che dà coscienza ad una materia bruta; di ricongiungere il nostro istinto naturale con la sua controparte spirituale. Nel nostro caso questo elemento è l’intuizione, che non per niente, ha le sembianze di un processo autonomo e fine a se stesso. Per Jung è infatti una funzione fondamentale, e non derivata. Il connubio tra Pan e le Ninfe, e tra materia e spirito, dà vita ad un terzo elemento “cerniera” che è la sintesi dei primi due; li trascende e, allo stesso tempo, gli permette di congiungersi e di comunicare tra loro. La definizione di Jung dell’Intuizione come “percezione inconscia” riassume in sé il paradosso di una “luce in ombra” di un rimosso che per un attimo si rende disponibile alla percezione. L’intuizione è uno di quei processi del tutto spontanei attraverso cui Pan, che in quanto archetipo della della natura, necessita della coscienza per esprimersi, si fa presente. La percezione che personalmente abbiamo, nel momento in cui riceviamo un’intuizione di qualsiasi tipo, è in primis quella di qualcosa che si riceve, che sopraggiunge indipendentemente dalla propria volontà. In secondo luogo quella di una forza, un’energia che preme per essere attualizzata, per non permanere allo stato grezzo, ma per sublimare in una forma nuova ed elaborata, possibilmente altrettanto “visibile”. Quando un’intuizione emerge, spesso, ci travolge, ci rende eccitati e non ci abbandona fino a quando non le troviamo un veicolo appropriato per esprimersi. Questo concetto ci rimanda immediatamente al comportamento coattivo di Pan.
L’opera d’arte di Pan.
Allorché visibile ed invisibile comunicano tra loro, attraverso l’Intuizione ne risulta come una creazione. Abbiamo detto che l’unione di Pan e le Ninfe, che nell’essere umano è metafora del processo di Intuizione, costituisce un incontro creativo, in quanto genera un terzo elemento che è la sintesi di entrambi. Ebbene, questo terzo elemento non è altro che un’opera d’arte, una produzione artistica. L’artista, nel ricevere un’intuizione, di tipo artistico appunto, è soverchiato dall’istanza incontenibile di trovare, alla sua intuizione, un posto nella materia. Questa materia però, non è più quella irsuta e incolta tipica di Pan ma è una materia intrisa di senso poetico, una materia rimodellata secondo i principi dell’estetica. La materia cambia forma, muta, al cospetto della coscienza. “La trasformazione alchemica dell’istinto mediante l’immaginazione”[14] può così dirsi finalmente conclusa: il mitologema “Ninfe”, che è simile a quello “Pan”, è infatti l’elemento mancante per dare avvio e realizzare il processo alchemico.
L’opera d’arte è il “visibile” più bello del pianeta e allo stesso tempo espressione dell’”invisibile” per antonomasia: la coscienza individuale. Con l’opera d’arte, il cerchio si chiude: la “natura dentro di noi” trova posto nella “natura fuori da noi” che, se da un lato è mezzo di espressione, dall’altro è fonte di ispirazione. E’ allora che le Ninfe, che sono lo spirito poetico e creativo insito nella natura, suscitano un entusiasmo sfrenato e eccitano l’immaginazione. Le ninfe, come dice Otto, sono preformazioni delle Muse[15], protettrici delle arti e delle scienze, e in queste trovano finalmente il modo di personificarsi.
Come sappiamo, tutti i poeti chiedono protezione alle Muse, che concedono grazia e fama ai canti dei mortali. E così ritroviamo la natura come protagonista assoluta di innumerevoli quadri, componimenti poetici e persino musicali. La natura ha da sempre rappresentato il luogo di massima ispirazione artistica. L’arte così concepita può essere vista in assoluto come quella funzione che lega indissolubilmente il mondo interno dell’uomo al suo ambiente esterno, e pertanto lo rende ingrediente segreto e straordinario di armonia ed integrazione del mondo. E tutto questo lo dobbiamo a Pan, che nella più totale spontaneità e scabrosità dei suoi impulsi, nella sua pazzìa e nella malattia mentale, ci indica la strada stessa per la cura e l’equilibrio psichico.
[1] J. Hillman (1996), Il codice dell’anima, Adelphi, Milano, 1997, Pg. 123.
[2] ibidem, pg. 127.
[3] Cfr. ibidem, pgg. 123-147.
[4] J. Hillman (1989), Fuochi blu, a cura di T. Moore, Adelphi, Milano, 1996, pg. 31.
[5] J. Hillman, (1979), Il sogno e il mondo infero, Adelphi, Milano, 2003.
[6] ibidem, pg. 45.
[7] J. Hillman (1996), Il codice dell’anima, Adelphi, Milano, 1997, pg. 61.
[8] C.G., Jung (1956), Ricordi, Sogni, Riflessioni, BUR, pg. 368.
[9]Altre interpretazioni etimologiche attribuiscono alla parola “ninfa” il significato di fanciulla fatta, affine all’italiano “nubile”, e non “nebuloso”. W.F. Otto, nel suo capitolo sulle ninfe, è d’accordo che la parola significhi “fanciulla” o “sposa”, tuttavia la riconnette miticamente in primo luogo ad Artemide e al sentimento greco dell’Aidos, “vergogna”, rispettoso sgomento entro e verso la natura. In questo senso può essere interpretato come polo opposto della conpulsività di Pan.
[10] J. Hillman, (1977), Saggio su Pan, Adelphi, 2015, pg 121.
[11] Cfr. ibidem, pg 47-64.
[12] ibidem, pg. 113.
[13] ibidem, pg. 108.
[14] ibidem, pg. 101.
[15] Il nome di Μοῦσαι (eolico, Μοῖσαι, per contrazione da Μόνσαι) sembra debba farsi risalire, come anche quello di Mnemosine, alla radice μεν-μαν, sicché le Muse sarebbero “coloro che meditano, che creano con la fantasia”.
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