Tutti fanno un gran parlare del trauma, per primi gli psicologi e neuroscienziati, e assieme a tante altre idee cliniche questa concezione è entrata già da tempo a far parte fortemente della nostra cultura. Traumi infantili, abusi, violenze, presunte ingerenze e danni irreversibili causati dai genitori nel nostro naturale percorso e nell’espressione del nostro spontaneo modo di essere, che tutt’ora da adulti ci costringono a vivere una vita rovinata, condizionata da quegli eventi precoci. Ci ritroviamo così facilmente nel ruolo delle vittime, in condizioni cliniche di malattia per colpa dell’influenza di irretimenti familiari e dei precedenti presunti traumi irrisolti dei nostri genitori, o di chi, invece di proteggerci e amarci incondizionatamente, ci ha giudicati, ci ha maltrattati, ci ha inflitto ingiusti dolori e sofferenze, ed impunito è rimasto nella sua posizione di potere mentre noi continuiamo ad andare avanti con sintomi e difficoltà nella vita. Ma è proprio questa la psicologia clinica in cui dobbiamo credere e di cui abbiamo bisogno?
Partiamo da una premessa fondamentale: “una psicologia che non sia psicologia del profondo è inevitabilmente superficiale e fallisce il suo scopo, e una psicologia del profondo è necessariamente una psicoterapia, per gli effetti che produce sulle basi inconsce della psiche” (J. Hillman, Figure del mito, Adelphi, 2014, pg. 67). Il problema principale della psicologia moderna sta in chi principalmente l’ha sviluppata così come ce la ritroviamo oggi, ovvero i medici, gli psichiatri e coloro che hanno avuto (o hanno ancora) un forte condizionamento dalla cultura positivista, antropocentrica e razionalista che si è sviluppata con l’Illuminismo. Ma non si può parlare di psiche con una mentalità di questo tipo, perché la confonderemmo inevitabilmente con la coscienza e con il cervello. Per questo già dire ad esempio “psicologia cognitivo-comportamentale” è un controsenso, perché significa equiparare la psiche alle funzioni cognitive e del comportamento. La psiche è energia invisibile o “anima“, e il suo logos può essere fatto esclusivamente attraverso metafore simboliche. Per questo dobbiamo rifarci ai filosofi e agli artisti, ovvero a coloro che per primi hanno saputo vederla come immagini, miti e rappresentazioni più che come funzioni e numeri. Gli psicologi che partono dal presupposto neurofisiologico dovrebbero quindi definirsi neurofisiologi o al massimo psicofisiologi qualora tentassero di ricondurre l’attività dei circuiti nervosi all’immaginazione della psiche, ai sogni e alle fantasie che essa produce. Inoltre coloro che si ritengono psicologi dovrebbero conoscere bene a fondo i limiti e le conseguenze dell’approcciare alla psiche dal presupposto riduzionistico – del tutto dogmatico – che essa sia la manifestazione dell’attività del cervello e dei suoi circuiti corporei, e rendersi conto del tremendo impatto iatrogeno del loro stesso approccio e del modo che hanno di fare psicologia, ad esempio inquadrando i sintomi come anormalità ed etichettandoli come disfunzioni o disturbi, piuttosto che vederli come manifestazioni autonome e spontanee della psiche. Se la gente, oggi, vaga in modo sempre più disperato alla ricerca del senso e del significato delle fantasie, dei pensieri e delle azioni proprie e altrui, nonché della propria vita, è perché la psicologia ha fallito proprio nel ricondurre a cause concrete gli eventi psichici, nell’assurgersi a scienza oggettiva e a considerarsi in modo positivistico, come qualcosa di progressivo e di evolutivo, assumendo questa impostazione arrogante e presuntuosa di poter trovare una spiegazione razionale a ogni fenomeno psichico, nonché di dover rendere “normale” ogni atteggiamento umano. Così facendo la psicologia fa solo finta di comprenderci, e nel far rientrare tutto nella propria teoria dell’assenza di qualche elemento di presunta normalità e sanità mentale e corporea, non risolve nulla di definitivo e non fa altro che protrarre l’eroico errore epistemologico ed egocentrico che considera la psicopatologia come qualcosa di aberrante da cancellare dal mondo.
Quando si parla di inconscio, di immagini psichiche e di rappresentazioni, ovvero quando si fa psicologia del profondo, come diceva Hillman noi inevitabilmente stiamo già intervenendo sulla psiche, stiamo già facendo psicoterapia, quindi il nostro intervento sarà tanto più proficuo quanto effettuato utilizzando le sue immagini e la sua impostazione fantastica e onirica, e tanto più letale quanto guidato da idee e impostazioni razionaliste ed antropocentriche. Hillman ha tentato di superare il modello dualistico di normalità-anormalità, dimostrando come la scienza e la stessa psicologia sia ancora intrisa di una “fantasia di normalità” degna del puritano persecuzionismo inquisitorio dell’Ego nella sua eroica lotta per estirpare il male dalla natura, riproponendo piuttosto l’antica saggezza e conoscenza di un cosmo in cui normale e anormale sono parti integranti di una continuità di fenomeni ed eventi adeguatamente patologizzati dalla psiche e dalla “sua” psicologia “anormale”. Se infatti la psicologia archetipica è nata partendo dalle idee e teorie di Jung, che aveva inizialmente lavorato sulle teorie che Freud aveva sviluppato a cavallo tra Ottocento e Novecento, essa si è sviluppata principalmente negli ultimi cinquant’anni proprio grazie all’intenso lavoro che Hillman ha portato avanti sulle grandi intuizioni junghiane e freudiane, depurandole delle loro pretese e dei loro condizionamenti culturali. Freud e Jung erano infatti entrambi due medici positivisti, e la stessa psicanalisi in quel periodo storico fu fortemente influenzata dalla teoria eziologica allora in voga nella medicina, che attribuiva la causa dell’insorgere delle nevrosi a esperienze traumatiche del passato, avvenute prevalentemente nell’infanzia. In quella che venne chiamata “teoria della seduzione”, incalzato dalle reminiscenze traumatiche raccontategli dai pazienti, Freud inizialmente sostenne che i loro sintomi erano causati da traumi sessuali avvenuti nella prima infanzia, come violenze e abusi fisici, approcci o allusioni sessuali, ma anche deprivazioni di cure e attenzioni, oppure un eccesso di esse. La teoria della seduzione fu abbandonata da Freud stesso nel 1897, quando si rese conto che le presunte scene di seduzione erano perlopiù fantasie e ricostruzioni fantasmatiche che andavano ben aldilà degli eventuali fatti.
In pratica, già Freud aveva sperimentato la facile confusione che nella nostra memoria si crea tra il bambino reale e il bambino archetipico o della fantasia, ma questa confusione era già diventata un classico nella storia della psicologia. Ciò che tuttora allibisce è che, nonostante i progressi che sono stati fatti nella psicologia del profondo grazie alla psicologia archetipica, gran parte dei medici e degli psicologi che si affacciano alla psicosomatica e si adoperano come psicoterapeuti risente ancora fortemente dell’impostazione fallace del primo Freud e della fantasia di normalità, che induce ancora a ricercare i fatti e gli eventi del trauma considerandoli reali e letterali prima che narrazione e fantasie. Non dobbiamo meravigliarci allora dei casi come quello scoppiato a Bibbiano nel 2019, in cui si è creduto possibile il poter falsificare le relazioni psicoterapeutiche di bambini considerandoli vittima di abusi ed eventi traumatici. Si, è vero che molti pazienti, così come molti bambini considerati “traumatizzati”, trovano sollievo anche immediato (e spesso una transitoria riduzione del sintomo) nell’inquadrare la loro condizione all’interno di una teoria eziologica, ovvero che ne attribuisce le cause a qualcosa avvenuto nel passato: ma non dovremmo crederci seriamente. Come già Freud aveva intuito, la catarsi abreativa indotta dalla rievocazione del trauma appartiene al dominio dei fenomeni suggestivi indotti dalla traslazione, ovvero dal transfert che si attiva con un terapeuta, attraverso il racconto delle reminiscenze, ovvero nella ri-narrazione e rielaborazione di quelle che sono fantasie archetipiche che erano rimaste taciute, rimosse e incomprese. Grazie a Jung e Hillman, la psicologia archetipica ha inquadrato il fenomeno del trauma come l’effetto di una fantasia archetipica, quella del bambino “abbandonato” o traumatizzato, e della sua inflazione. Vediamo cosa comporta questa fantasia, e come comprenderla per lavorare in psicoterapia senza il suo iatrogeno influsso.
Da Freud a Jung a Hillman, alla scoperta dell’archetipo del Puer
Nel primo Freud e nei primi anni della psicoanalisi, il trauma era attribuito a un evento personale della storia del soggetto, perlopiù situato in età infantile e che violava un presunto principio di costanza, provocando – si pensava – un aumento dell’afflusso di stimoli corporei che l’apparato psichico non era in grado di scaricare. Non si dava rilievo, piuttosto, alla più probabile incapacità dell’organismo di tollerare l’evento per via della sua precipua costituzione, ovvero… quella di fantasia! Possiamo facilmente accorgerci di questo qui pro quo considerando la descrizione estremamente differente e soggettiva che le persone (e proprio i bambini) fanno nel racconto del presunto evento traumatico, ad esempio uno schiaffo o una carezza ricevuti da parte di un genitore: quelli che lo considerano qualcosa di normale, nonché razionale, non lo vivono come traumatico e perlopiù lo tollerano, mentre quelli che lo considerano come anormale, nonché irrazionale e maligno, non sono in grado di tollerarlo perché non possono trovargli un posto razionale. Freud capì presto che non poteva fidarsi dei ricordi dei pazienti, e allora fu tentato di riscrivere la teoria della seduzione in termini soggettivi, e negli “Studi sull’isteria” spostò l’attenzione sulla “sensibilità” del soggetto, ponendo la sua teoria del conflitto psichico alla genesi delle neuropsicosi da difesa. Il trauma è ora per lui scomposto in un primo elemento “di seduzione”, un episodio in cui il bambino subisce un presunto approccio sessuale da parte dell’adulto senza provocare eccitazione, e un secondo episodio “rievocativo”, dopo la pubertà, della seduzione infantile, che gli attribuisce significato sessuale e innesca la patologia. Vede quindi la conseguenza del trauma come incapacità della psiche di liquidare le eccitazioni sempre secondo il principio di costanza. Nella “teoria dell’angoscia” (vedi “Inibizione, sintomo e angoscia”, 1926) il prototipo della situazione traumatica diventa per lui l’impotenza dell’Io indifeso nel non essere in grado di compiere azioni specifiche volte a porre fine alla tensione interna generata dall’episodio traumatico – situazione in cui l’Io può essere attaccato sia dall’interno che dall’esterno. Non è quindi più valido il modello semplificato che aveva utilizzato in “Al di là del principio di piacere”, in cui vi era una relazione elementare tra un organismo e il suo ambiente. Nonostante queste conclusioni, tutte le teorizzazioni freudiane e post-freudiane risentono dell’idea che le cause del trauma vadano ricercate nel passato, ricadendo nel paradigma positivista ottocentesco del casualismo e della causalità unidirezionale.
Nonostante già Freud fu costretto a separare il bambino dei fatti da quello della fantasia, e gli eventi infantili esterni dall’infanzia vissuta e percepita interiormente, rimase tuttavia fedele alla sua intuizione che il compito della terapia fosse l’analisi dell’infanzia. Ma a quale infanzia si riferiva? Su questo rimase ambiguo:
“in lui infatti il piccolo essere umano in carne e ossa che chiamiamo « bambino » si fonde con un bambino rousseauiano, addirittura orfico-neoplatonico, il quale è «un soggetto psicologico diverso dall’adulto». La differenza risiede nello speciale modo che il bambino ha di produrre ricordi: « Il bambino ricorre (alla) … esperienza filogenetica nel caso in cui la sua esperienza personale non sia sufficiente. Egli colma le lacune della verità individuale per mezzo della verità preistorica, pone l’esperienza dei progenitori al posto della propria esperienza. Convengo pienamente con Jung nel riconoscere questa eredità filogenetica… ». Dunque il bambino reale non era a sua volta del tutto reale, perché le sue esperienze consistono in affabulazioni di occorrenze «preistoriche», ovvero atemporali, mitiche, archetipiche. Per Freud l’infanzia consiste in parte in uno stato di rimemorazione, simile alla memoria platonica o agostiniana, un regno immaginale che fornisce al bambino reale « i suoi modi particolari di vedere, di pensare e di sentire» (Rousseau). È il regno immaginale, la modalità di esistenza immaginale, che secondo la psicologia popolare e la psicologia del profondo si ritrova nei primitivi, nei selvaggi, nei matti, negli artisti, nei geni e nel passato archeologico: l’infanzia delle persone si fonde con l’infanzia dei popoli. Ma il bambino e l’infanzia non sono reali: sono termini per indicare una modalità di esistenza, di percezione e di emozione che noi ancora oggi insistiamo nell’attribuire ai bambini reali, talché costruiamo per loro un mondo assecondando il nostro bisogno di situare questa fantasia in un qualche luogo della realtà. Ciò che sono i bambini in sé, i bambini non «adulterati» dal nostro bisogno di avere qualcuno che si faccia portatore del regno immaginale, degli «inizi» (« primitività», «creatività»), i bambini non configurati dall’archetipo del bambino, questo non lo sappiamo. Non potremo saperlo, finché non avremo compreso meglio il modo in cui opera nella psiche soggettiva il bambino della fantasia, il bambino archetipico. Ma ancora più stupefacenti degli attributi enunciati da Freud sono quelli che si possono dedurre dalle sue idee. Innanzitutto, Freud attribuì al bambino il primato: niente nella nostra vita è più importante di quei primi anni e dello stile di pensiero e di emotività di quella esistenza immaginale che chiamiamo « infanzia». Secondo, Freud riferì al bambino il corpo: prova passioni, desideri sessuali, desideri omicidi; ha paure, sacrifica e rifiuta; odia e desidera ardentemente ed è composto di zone erogene, ha l’ossessione delle feci, dei genitali e merita la definizione di perverso polimorfo. Terzo, Freud assegnò al bambino la patologia: vive nelle nostre rimozioni e fissazioni; sta al fondo dei nostri disturbi psichici: è le nostre sofferenze.” (cit. Hillman, pg. 71-72).
Anche se Freud non parlò di archetipi, vide nel bambino reale l’azione di quello archetipico o immaginario, un dio universalmente polimorfo, sofferente e traumatizzato. Jung parlò del bambino in un suo saggio del 1940, “Psicologia dell’archetipo del fanciullo”, descrivendolo come “abbandonato” e mettendo in chiaro la sua fantasia empirica, ovvero l’esistenza del “motivo del fanciullo” e l’idea illusoria che la nostra appercezione di quel motivo così come vissuto nella nostra soggettività derivi dall’osservazione empirica dell’infanzia reale. Per Jung, il fanciullo archetipico è “l’abbandonato e l’esposto a tutto, e al tempo stesso il divinamente potente, l’inizio insignificante e dubbioso e la fine trionfante” (Jung, cit. in Hillman pg. 73). L'”eterno fanciullo” junghiano è l’archetipo del Puer aeternus, di cui abbiamo parlato in altri articoli di questa rivista, uno spirito creativo che determina caratteri dell’anima quali futurità, invincibilità eroica, ermafroditismo, inizio e fine, e, oltre ad altri, il motivo dell’abbandono e della sofferenza, su cui si concentra Hillman.
Attenzione, perché già per Jung l’archetipo del Puer non riguarda soltanto l’infanzia e l’infantilismo, ma è un modo di vedere, di essere e di vivere che si attiva e si esprime in circostanze specifiche della vita dell’adulto, laddove la coscienza tende a fissarsi e a lateralizzarsi, come motore creativo e generativo del nuovo. “Il nostro tema segue alla lettera Jung, là dove dice: « Il motivo del fanciullo non soltanto rappresenta qualcosa che è stato e che è passato da molto tempo, ma anche qualcosa di attuale … non è soltanto un residuo, ma anche un sistema che funziona nel presente ed è destinato a compensare e rispettivamente rettificare in maniera significativa le inevitabili unilateralità e stravaganze della coscienza».” (cit. pg. 74). Questo punto è davvero fondamentale per la psicologia: dobbiamo riconoscere che siamo dominati dall’archetipo del Puer, non da dei traumi infantili e né tantomeno da ciò che ci hanno o non hanno fatto i nostri genitori. L’archetipo del Puer è un motore di vitale importanza che si attiva in fasi speciali della vita, quelle in cui la psiche ci dispone tutta la sua energia per agire e liberarci da una certa situazione.
Vedendo allora la fantasia del trauma e del fanciullo come archetipica, si rivela tutta un’altra impostazione teorica, non causalistica ma teleologica, davvero psico-logica perché parte dalla psiche e dal suo telos, la direzione che le sue immagini ed energie dispongono e attraverso cui essa ci orienta. I medici e gli psicologi faticano ancora a volgere l’immaginario del trauma al presente, al momento in cui si costella nella psiche, e da qui in avanti verso il suo futuro seguendone il nucleo germinativo e lo scopo creativo, piuttosto che riportandolo all’indietro cercandolo nei fatti dell’infanzia e nel ruolo dei genitori e così finendo per dare drammaticamente la causa e la colpa ad essi, ed eludendo quel suo importantissimo scopo archetipico. Ogni volta che affiora l’ipotesi del trauma, così come quando si analizza il senso e il significato simbolici di un sintomo o di una malattia corporea, dobbiamo chiederci anzitutto perché questo sintomo e questo trauma compaiono o riappaiono in questo momento della nostra vita, e amplificarne il senso e significato simbolico e archetipico, chiedendo al paziente ad esempio “dove ti ritrovi in questo periodo, o dove ti servirebbe, questo senso e significato?”. Scopriremo la verità inoppugnabile che, come dicevano Jung e Hillman, il sintomo è un simbolo o immagine della nostra anima, e come ogni evento psichico mira è sempre volto a uno scopo preciso. Ciò è, ad esempio, quanto ha fatto Rudiger Dahlke nel suo fondamentale lavoro in psicosomatica.
Hillman passa in rassegna una serie di fantasie archetipiche collegate al Puer, come quella dell’indipendenza, della crescita, dell’evoluzione e del progresso, ponendo una critica alla cultura e alla società moderna che non deve risparmiare nessuno: da Piaget a Rogers, da Winnicott a Erickson a Bowlby, e così via, tutti gli studi empirici sul bambino e sulle sue fasi evolutive sono viziate dall’impostazione causalistica del positivismo e dal suo letteralismo, che confonde il bambino fisico ed esteriore con quello psichico e interiore della fantasia archetipica. Letteralizzando il bambino interiore, queste teorie hanno poi trovato negli studi empirici ciò che cercavano nella psiche, e hanno eguagliato il bambino fisico a quello interiore e archetipico, perché “chi cerca trova”, succede proprio così: la teoria di partenza genera un bias dello sperimentatore e della sua teoria, cioè della sua visione, per cui tutti gli esperimenti e le variabili considerate o meno come importanti per verificare le proprie ipotesi nel contesto fisico creeranno il presupposto gnoseologico per trovare e realizzare e trovare ciò che stiamo cercando. Nel nostro caso, se la nostra teoria crede di poter trovare i segni e le prove empiriche di anormalità, aberrazioni e differenze fisiche collegate alla presenza del trauma, le troverà per certo, perché finirà per assimilare ciò che trova nel mondo fisico (ad esempio nel cervello o nel corpo del paziente) al fisico e non all’archetipico e all’immaginativo, e l’interpretazione della correlazione nei risultati dell’esperimento sarà fatta al contrario: il trauma fisico ha generato quello psichico e le sue fantasie, e non viceversa. La visione positivista dell’infanzia e del bambino è talmente inflazionata nella nostra cultura che a stento riusciamo ad accorgerci di quanto essa condizioni ogni nostra ipotesi di conoscere obiettivamente cosa sta agendo, ad esempio, nella mentalità dell’uomo occidentale così teso a nella ricerca della propria libertà e indipendenza, così arrabbiato e bisognoso di riscattare e vendicare questo bambino, e dell’enorme schiera di medici, neuroscienziati, psicologi e counselor che condividono questa visione illusoria e ad hoc gli vendono la terapia del bambino interiore. Tutti ancora sono sedotti dalla concezione, così facile perché logica e lineare, che quello che ci è successo nel passato sia la causa di quello che ci è successo dopo. Ma cosa vuole veramente questo bambino psichico che, come immaginario archetipico, viene a farci visita così ossessivamente con sempre più sintomi e patologie, e che sembra non voler placarsi mai definitamente?
Ritornare all’infanzia per riscoprire la fantasia e l’immaginazione
Hillman lamenta il fatto che il principale contenuto iatrogeno della psicologia occidentale sia proprio nella psicologia evolutiva, che con la sua impostazione causalistica produce un’inflazione della spontanea attivazione psicopatologica dell’archetipo del bambino abbandonato.
“Ecco la teoria di fondo: la nostra storia è la nostra causalità. Non si fa nemmeno distinzione fra storia come racconto di eventi e storia come causa. Quindi devi ritornare all’infanzia per scoprire perché sei come sei. Così quando la gente va fuori di testa, o è disturbata, o nevrotica, o è qualunque altra cosa, nella nostra cultura, nel nostro mondo psicoterapeutico, si torna alle nostre madri e ai nostri padri e alla nostra infanzia. Questo non avviene in nessun’altra cultura, dove se sei fuori di testa, o molto disturbato, o impotente, o anoressico, guardi cosa hai mangiato, chi ti ha fatto il malocchio, quale tabù hai trasgredito, che cosa non hai fatto nel modo dovuto, quando è stato che hai mancato di rispetto agli dèi, se non hai partecipato a una danza, se hai interrotto una qualche usanza tribale, e così via. Ci potrebbero essere centinaia di altre cose – le piante, l’acqua, le maledizioni, i dèmoni, gli dèi, il non essere in contatto con il Grande Spirito. Non si tratterebbe mai, mai, di quello che ti è successo con tua madre e tuo padre quarant’anni fa. Solo la nostra cultura utilizza quel modello, quel mito“. (da Hillman, Cent’anni di psicanalisi – e il mondo va sempre peggio, Mondadori, 1992-2022, pg. 24).
Per Hillman, credendo che la causa del trauma sia da ricercare nell’infanzia e la colpa sia dei nostri genitori, crea un’ingerenza nel percorso dell’anima in quanto iniziamo a chiamare “fatti”, “realtà”, “scienza” le sue fantasie archetipiche, perdendone di vista il loro significato e la loro portata individuativa. Hillman propone un’altra prospettiva, quella psico-logica e archetipica, secondo la quale la cultura positivista muove dall’archetipo della Grande Madre e dal Figlio-Puer, e da ciò che lui chiama “complesso familiare”, ragion per cui la nostra è un’educazione pedagogica e una terapia normativa volta a estirpare le cause del male, a curarle e a sconfiggerle come promesse di successo e di progresso evolutivo, in una prospettiva di conquista del mondo della materia tipico appunto della Grande Madre. In relazione a ciò, Hillman chiama “superstizione parentale” la credenza archetipica che i genitori abbiano questo strapotere divino, e la tendenza del bambino a volersi opporre ad essa fintantoché non l’avrà posseduta. Trattare questo tema archetipico come se fosse realmente esistente significa letteralizzarlo, e concedere alle cure parentali e al trauma infantile tutta questa fatale importanza che in realtà causa un’ingerenza nel percorso attuale e nella situazione del paziente, perché lo fa regredire al passato e gli fa credere di dover riscattare veramente questo potere dai propri genitori, piuttosto che rappresentare quel motivo archetipico per sé stessi e utilizzarlo nella situazione attuale per cambiarla. Significa forzare a una visione a senso unico per tutti, e non c’è nulla di più anti-analitico e anti-psicologico che indicare una strada al paziente, perché l’analisi e la terapia non sono processi normativi, e non dovrebbero essere al servizio di nessuna specifica moralità, ma piuttosto dell’etica situazionale della psiche. Un terapeuta può pensare che il paziente stia sbagliando o combinando disastri, ma lo lascerà comunque libero di fare per non causare alcuna ingerenza nel suo percorso individuativo. L’anima sa, l’anima orienta, e noi dovremmo servirla, non servirci di essa per i nostri scopi razionalisti.
Hillman allora ci invita a guardare le cose nel senso opposto. Dal punto di vista psico-logico, ciò che conta è il fatto che nell’interiorità del bambino, dentro ognuno di noi, ci sia un nucleo germinale, ovvero un carattere, una vocazione e un destino specifici. Come nel mito della nascita dell’anima descritto ne “La Repubblica” da Platone, e ripreso da Hillman nel suo geniale capolavoro “Il codice dell’anima”, questo nucleo muove affinché nella vita noi diventiamo ciò che siamo in quella nostra essenza. Ovvero, mettiamo che alla nascita e sin da piccoli noi già siamo una determinata persona, e che quella persona cominci a manifestarsi presto nella vita. Nella sua opera, Hillman riprende a esempio numerose biografie di personaggi noti e importanti della storia e dell’arte, mettendo in evidenza come le circostanze e gli eventi traumatici della loro vita fossero intimamente legati dalle specifiche premesse caratteriali già evidenti proprio nell’infanzia. Winston Churchill, per esempio, quando era ragazzo aveva un sacco di problemi di linguaggio e non riusciva a parlare bene, e fu messo in una classe per bambini diversamente abili. Per forza aveva difficoltà a scrivere e parlare, dice Hillman: questo bambino era già il potenziale vincitore del premio Nobel per la letteratura e con la sua eloquenza doveva salvare il mondo occidentale.
“Per forza aveva un difetto di pronuncia, per forza non riusciva a parlare con facilità quando aveva undici o quattordici anni: quello che doveva sostenere era un peso troppo grande per un bambino. Oppure prendiamo Manolete che, quando aveva nove anni, appariva come un ragazzino impaurito, tutto pelle e ossa, che passava il tempo a ciondolare in cucina, sempre intorno alla madre. Poi è diventato il più grande torero dei nostri tempi. La psicologia direbbe: «Sì, è diventato un gran torero perché era un bambino così gracile che per compensazione ha fatto l’eroe, il macho». Questa sarebbe psicologia adleriana: prendi la tua insufficienza, la tua inferiorità e la trasformi in superiorità. […] Supponiamo, invece, di considerarlo nell’altro modo e di leggere la vita di una persona a posteriori. Allora diremmo: Manolete era il più grande torero, e questo lui lo sapeva. Dentro di sé, all’età di nove anni, la sua psiche sentiva che il suo destino era quello di affrontare tori neri da dieci quintali, con grandi corna. Per forza si aggrappava alla madre! Perché non ce la faceva a reggere quel potenziale. A nove anni il tuo destino c’è già tutto e tu non sai come regolarti: è troppo grande. Non era che Manolete fosse inferiore: aveva un grande destino. Adesso, supponiamo di guardare tutti i nostri pazienti in questo modo. Supponiamo di guardare tutti i ragazzi che sono strani, balbuzienti o spaventati, e, invece di considerare queste difficoltà come problemi di sviluppo, consideriamo che questi ragazzi abbiano dentro di sé qualcosa di grande, un qualche destino che essi non sono ancora in grado di padroneggiare. È qualcosa più grande di loro e la loro psiche lo sa. Questo è un modo di leggere la nostra stessa vita in maniera diversa. Invece di leggere la nostra vita, oggi, come il risultato di sconfitte patite quando eravamo bambini, proviamo a leggere la nostra infanzia come un esempio in miniatura, un cammeo della nostra esistenza…” (cit. Hillman pg. 26).
Dalla prospettiva psichica e archetipica, dunque il trauma e il bambino abbandonato sono stati patologici spontanei costituiti da immaginari psichici da cui siamo controllati, e che non devono essere cancellati ma “ascoltati”, perché contengono l’energia creativa utile all’elaborazione e al riscatto dell’anima e dell’energia psichica, nel mondo e nella nostra vita. Gli stessi quadri clinici e le condizioni fisiche e sintomatiche del paziente traumatizzato rappresentano compiti, e non vanno in alcun modo giudicati come punizioni. Il filosofo Blaise Pascal ha espresso questo concetto molto semplicemente dicendo “la malattia è il luogo in cui si apprende”. Se l’anima orienta l’io e lo educa a riconoscere sé stessa, le patologie fanno parte del piano educativo, giacché l’anima patologizza per sua natura. Pensare di poter o dover cancellare la patologia psichica è la vera aberrazione.
Lo stato di regressione puerile che nessuno vuole sembra essere sempre più una costante nella nostra epoca, e può anche essere stimolato direttamente dalla psicoterapia. Ciò in quanto la psicoterapia offre accoglienza e un terreno sicuro per uscire dal nascondiglio, uno spazio dove possiamo mostrare le ombre indesiderate, le parti brutte e indegne di amore che teniamo nascoste, i nostri narcisismi, le nostre megalomanie e le nostre spropositate speranze. A questi sentimenti la psicologia ha man mano assegnato dei nomi: desideri infantili, fantasie di autodistruzione, bisogni di onnipotenza, impulsi arcaici. Ma nell’irridere a questi nomi, Hillman ci ricorda che non dobbiamo dimenticare che questi stati patologici infantili contengono la futurità. Il superamento di una condizione cosi indesiderata, brutta e irragionevolmente speranzosa sta precisamente nella condizione stessa. La patologia è anche il futuro: in essa stanno le intuizioni profonde, e da essa proviene il movimento verso il nuovo. Questo bambino che è presente nella patologia e che si presenta nella psicoterapia, invece di esserne agiti, noi lo possiamo evocare consapevolmente se sappiamo cogliere quella sorta di suo pianto di fondo, se sappiamo dar voce al contenuto abbandonato attraverso il suo lamento.
“Per alcune persone esso è: « Aiutami, per favore, aiutami»; per altre: « Prendimi così come sono, tutto intero, senza scegliere fra i miei tratti, senza giudicare, senza fare domande»; oppure: « Prendimi, senza bisogno che faccia qualcosa per meritarmelo». Un altro pianto può voler dire: «Tienimi stretto» oppure «Non andartene; non lasciarmi mai solo». In altri casi sentiremo la voce dire semplicemente: «Amami». O ancora: « Insegnami, dimmi che cosa fare, mostrami come si fa». Altre volte la voce dal fondo può dire: « Lasciami stare; lasciami in pace». […] È importante ribadire a questo proposito che quel pianto non può mai essere placato. In quanto dà voce al bambino abbandonato, è sempre presente, e deve esserlo, per una necessità archetipica. Sappiamo bene come certe cose non le impariamo mai, non le possiamo evitare, come ci ricadiamo ogni volta e ogni volta suscitano il pianto. Questi luoghi inaccessibili, dove siamo sempre esposti e impauriti, dove non possiamo apprendere, non possiamo amare, che non possiamo evitare con la trasformazione, la rimozione o la accettazione, sono le lande selvagge, le caverne dove giace nascosto il bambino abbandonato. Il fatto che continuiamo a regredire fino a quei luoghi ci dice qualcosa di fondamentale sulla natura umana: che durante tutto il corso della vita incontriamo ripetutamente una incurabile psicopatia, la quale pero passa palesemente attraverso molti mutamenti prima e dopo il contatto con l’immutabile bambino” (cit. Hillman, Figure del mito, pg. 81).
La terapia archetipica si muove, come tutte le altre forme di terapia, dentro l’archetipo dominante di questa epoca: l’archetipo positivistico che, come detto sopra, chiama in causa la prospettiva della Grande Madre e del suo bambino. A differenza di molte altre forme di psicoterapia, però, essa non si rivolge al bambino per educarlo e normalizzarlo, bensì per recuperarlo a sé stesso, e per recuperarlo alla madre, recuperando la base poetica e creativa della psiche, nonché l’immaginazione. Essa si rivolge a tutto quello che si rivela utile per liberare la potenza dell’immaginario; e in particolar modo a quelle immagini che sono bloccate, oscurate, negate dalla posizione assunta dall’Io, fuori fuoco o troppo a fuoco per il tipo di lente da esso utilizzata. Se ad essere bloccati sono l’istinto, l’eros e l’aggressività, come nel sogno di una paziente in cui compare un felino in gabbia, amplificheremo il simbolo nell’etologia e ad esempio parleremo di come il felino domini la scena agendo in modo libero vincendo sugli altri animali e sul volere dell’uomo. Faremo, a questo punto, una domanda al sognatore volta a farlo mentalizzare sul presente e per il futuro, chiedendogli ad esempio dov’è che si sente in gabbia nella sua situazione attuale rispetto alla liberazione dei suoi istinti e della sua creatività, senza rimandarlo al passato. Se sogniamo di dover proteggere un bambino che rischia di morire o di essere abusato, ascolteremo cosa ci suggerisce il puer del sogno, ovvero il bambino interiore che è venuto a farci visita per ricordarci il nostro compito. Può accadere che invece il bambino o la bambina del sogno venga a dirci che non è nostro figlio o figlia, e che non vuole essere protetto e gestito da noi: ciò significa che l’Io staziona su di un ruolo genitoriale fuori luogo rispetto alla situazione attuale, e dovremo allora capire dov’è che stiamo cercando di controllare e gestire le nostre parti creative come se fossero “nostre” e quindi senza rispettare le loro intrinseche caratteristiche e la loro libertà espressiva. Se non si tratta di sogni, ma il bambino o la bambina appaiono dal racconto dei fatti della situazione del paziente, potremo comportarci allo steso modo, ovvero amplificando il Puer o la Puella nei loro ruoli archetipici e nei miti collegati ad essi, e domandare al paziente dove si ritrova quei ruoli o dove ne avrebbe bisogno.
L’inflazione del Puer aeternus nella nostra società
La psicologia clinica, preoccupata di curare la malattia, tende ad identificarsi con il solo aspetto adulto della Madre, perdendo totalmente la prospettiva del bambino, che sa raccontare e ama le storie e l’utilizzo delle fantasie. Il bambino viene normalmente ricondotto a dover accettare il passato che è stato e a non poterci fare niente, viene cioè limitato a un ruolo passivo che non farà altro che “spostare il sintomo”. Il soggetto in questione si sentirà allora pigro, alternerà stati di entusiasmo e fallimento, “alti e bassi” dirà in analisi; e, ad esempio, quando tornerà a casa dai genitori, si ridurrà a un ruolo passivo, si metterà in disparte, cercherà ancora quella posizione o passerà la maggior parte del tempo in disparte o dormendo, per poi lamentarsi di essersi sentito inutile. Invece di essere curato e normalizzato, il Puer ascoltato e poi rappresentato, occorre cioè realizzare il fatto che noi saremo e dobbiamo essere sempre in parte inetti e fallibili, dovremmo sempre a volte sentirci inadeguati, perché fallimento e avventura vanno insieme, e senza uno spirito problematico noi contorneremmo a immaginare di dover modificare qualcosa nella nostra vita, di dover mettere in atto un nuovo modo di essere, di dover cambiare atteggiamento e situazione. Il Puer quindi porta il nuovo, ma solo se agito consapevolmente in modo funzionalmente utile al soggetto e alla sua situazione.
In effetti, la catarsi indotta dalla liberazione del trauma nel racconto e nel lamento del Puer indica che l’energia psichica che prima era bloccata su quell’immagine o complesso legato al trauma, torna ora ad essere di nuovo disponibile; ma finché non produrrà il cambiamento opportuno nella vita, essa non verrà utilizzata, e allora il sintomo e l’atteggiamento patologico iniziali, che magari erano stati rimessi, torneranno a incalzare l’Io in breve tempo, perlopiù in nuova forma e assieme ad altri sintomi. L’energia psichica è indistruttibile, e se rimane inespressa, si trasforma in qualcos’altro di patologico. In psicosomatica, ad esempio, passa una rosacea, ma poi compare una psoriasi; passa una cistite, ma poi compare un’acne o un eczema, e così via. Dobbiamo ricordare sempre che l’identificazione di un trauma come causa di disagio e patologia psichica è un’esigenza archetipica che si impossessa di teorie poco attente a non diventare eroiche e a non favorire un’esigenza psichica unilaterale a scapito della poliedricità di voci psichiche che vorrebbero invece esistere e sentirsi rappresentate nel mondo. La teoria e l’ipotesi del trauma, con il suo riduzionismo e le sue letteralizzazioni, finisce per traumatizzare essa stessa la psiche, inchiodandola ad un unico immaginario, quello della malattia, legata ad una causa materiale che va estirpata e guarita. La modalità dicotomica di leggere la diade archetipica Madre-Figlio o Padre-Figlia influenza la teoria psicologica, per cui molte scuole sono rimaste intrappolate nello stesso modello di pensiero delle madri e dei padri. Genitori che a tutt’oggi vengono incolpati e resi responsabili dell’umana condizione del bambino: lei, il suo seno, le sue abitudini durante la gestazione, le cure e le attenzioni durante i primi mesi, e lui, la sua voce, la sua presenza, la sua guida, la sua protezione e le sue regole e il suo esempio da seguire negli anni successivi. Di conseguenza la psicologia ritiene che la madre e il padre non siano mai abbastanza: se essi sono sempre presenti, vengono allora accusati di incoraggiare la debolezza, i coccolamenti, la dipendenza; se allevano con calore e intimità, o con metodo ed ordine, vengono chiamati asfissianti, divoratrice e oppressivo. Se il genitore desidera per il proprio figlio tante cose, attingendo alle fantasticherie sul suo futuro, allora con le proprie mete ne condiziona e ne determina la vita; se è lungimirante, intuitivo, distaccato, allora è enigmatico, criptico, assente; se gode della vita e dei piaceri dei sensi, allora sta seducendo i propri figli o li sta privando delle loro vite vivendo tanto voluttuosamente la propria. Qualunque sia lo stile di maternità e paternità, dev’essere per forza un qualche stile maledetto, perché dev’essere per forza la causa che ha generato la conseguenza nel figlio.
Domandiamoci a questo punto se la stessa psicologia del trauma non sia legata culturalmente al fatto che oggi i figli non considerino più con stima i propri genitori, che non li rispettino e non li vedano più fondamentali e utili alla loro infanzia e adolescenza, ma più come un bagaglio pesante nel loro viaggio, quasi un superfluo impedimento. Il predominio dell’archetipo del bambino, che ritorna e ritorna a costellarsi perché incompreso e non ascoltato nel nostro pensiero psicologico, oltre ad averci indebolito l’intelletto, ha privato l’adulto della sua immaginazione e del suo potere psichico, aumentando l’estensione della fase infantile-adolescenziale a quasi tutta la vita, ed esacerbando il conflitto generazionale fino a farlo collassare culturalmente dall’interno. Così l’individuo ormai adulto, per ritrovare l’immaginazione e il suo potere creativo, deve ritornare all’infanzia, viene obbligato dall’archetipo a riflettere sul passato per capire… che in fondo il passato è passato, e che anche se fosse, lui non è proprio quel bambino. Il bambino attuale è infatti la fantasia e la forza rabbiosa e bisognosa del Puer che risulta attiva, come il sintomo e la patologia, nella sua psiche per richiamare a sé anche il Pater e la Mater come atteggiamenti e ruoli genitoriali transpersonali, presenti e attivi come opportunità nella psiche e nella propria vita attuale. Percependola come irreale, autocritica, primitiva, quell’infanzia finisce comunque, anche se patologicamente, ad essere ritrovata e rivissuta come mitica, perché l’infanzia perduta ha significato per noi la perdita della forza delle nostre idee e della nostra immaginazione, l’amnesia nel senso di memoria di sé stessi che è venuta a mancare, di abbandono delle proprie diversità, dei propri specifici bisogni. Potremmo allora disporre una psicologia capace di non arrendersi al bambino né di doverlo soltanto curare e normalizzare. Non siamo costretti a oscillare tra il vivere come eterni fanciulli senza fissa dimora, senza legami stabili e duraturi, e senza essere sicuri di chi siamo e di cosa vogliamo, e il vivere soltanto per fare scelte o cose considerate “importanti” razionalmente. Nella vita, al momento in cui la possibilità di scegliere si presenta, possiamo assumerci la responsabilità di farci contenitore di quel bambino, senza ricorrere né al suo sviluppo ed emancipazione, né al suo abbandono. Possiamo portare quindi la nostra esperienza soggettiva e nel nostro modo di essere il Puer-et-Senex, ovvero entrambe le polarità dell’archetipo: come dice Hillman, un uomo o una donna che tollerano e sopportano con dignità la vulnerabilità delle proprie speranze, la vergogna del proprio puerile, la propria immutabile psicopatologia e la necessità di essere anormali nel mondo.
Oggi viviamo sempre più in questo limbo d’eterna giovinezza, rifuggendo la vecchiaia e la morte nel terrore di fare compromessi e di prenderci le responsabilità delle nostre azioni proprio per l’inflazione del Puer e della Grande Madre, proprio perché la cultura positivista – e la psicologia del trauma – ci hanno fatto credere che i nostri problemi esistenziali risiedessero in una cultura già vecchia e ostile, troppo violenta e rigida, come quella dei nostri genitori. L’approccio scientifico e positivista alla psiche continua a darci la costante illusione di poter sconfiggere il male insito in noi stessi ricusandolo a responsabilità dei nostri genitori. Piuttosto, dovremmo ascoltare il Puer e riscattarlo immaginalmente quando si costella spontaneamente come insanamente debole e bisognoso di cure e di affetto, per prendersene carico noi stessi ogni giorno come nostro dovere e compito esistenziale, senza giudicare o accusare nessuno. Quando si attiva nella psiche, l’immaginario del bambino deve poter stare al nostro cospetto, assumendolo su di sé in quel momento e utilizzando la sua energia per dare a sé stessi quell’amore incondizionato e quel gettito poetico e artistico che noi dovremmo sempre avere nei confronti della nostra anima e del nostro carattere innato, con tutte le sue brutture, stranezze e presunte debolezze assieme alle bellezze, senza continuare a pretendere quell’amore dai genitori né tantomeno dal partner, dalla società o dallo Stato.
Bibliografia:
J. Hillman, Figure del mito, Adelphi, 2014.
J. Hillman, Il codice dell’anima, Adelphi, 1997.
J. Hillman, M. Ventura, Cent’anni di psicoanalisi. E il mondo va sempre peggio, Oscar Saggi Mondadori, 2022.
A. Paris, G. Buzzetti, Il trauma: un’idea archetipica, in “Il linguaggio della psiche – Quaderni di psicologia archetipica 1”, Portofranco editore, 2012.
Immagine: Bansky, Girl with balloon.
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