Perché siamo attratti da certi luoghi?

Quante volte abbiamo desiderato cambiare casa e andarcene da dove viviamo. E quante altre, dopo averlo fatto, abbiamo avuto nostalgia dei luoghi dove avevamo vissuto. Ci sono luoghi che ci chiamano, quando ne sentiamo parlare, quando ne vediamo le foto. In altri, invece, fatichiamo a restare e non ci sentiamo più a “casa”.

Sembra che il cervello umano si sia sviluppato per associare la memoria ai luoghi, per orientare l’individuo nello spazio. Non a caso una delle più antiche tecniche per migliorare la memoria è il cosiddetto “metodo dei loci”. L’influenza del contesto ambientale nella costruzione di un ricordo, e sulla possibilità di recuperarlo, è stato ampiamente dimostrato già da Tulving e Baddeley negli anni ‘70. Ad esempio, ci appare evidente quando ci troviamo nei luoghi di infanzia e riviviamo i ricordi di quando eravamo bambini. O quando torniamo dove siamo stati con un nostro ex e ci sembra già tutto diverso. Gli studi più recenti hanno dimostrato che ai luoghi noi associamo le caratteristiche dei vissuti interiori attuali, in altre parole i luoghi non sono solo uno spazio fisico esterno, ma una dimensione intrapsichica che continuamente re-immaginiamo.

Cosa succede quindi nella nostra psiche quando però scegliamo di lasciare una città o un paese per andare a vivere in un altro? Cesare Pavese scriveva che “un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Un paese è prima di tutto un luogo, e un luogo è uno spazio depositario di significati. È insieme un territorio concreto e una dimensione simbolica evocativa. Il paese come luogo racconta sia delle persone che lo hanno abitato nel passato, sia di quelle che lo abitano nel presente. È un registro di passaggi, di tracce sedimentate, posate sui pavimenti, sui muri, affacciate alle finestre.

Essendo un luogo una “narrazione”, la sua storia si palesa attraverso l’immaginario che di esso, in noi stessi, si va costituendo non solo se lo viviamo ma anche mentre lo immaginiamo. Un luogo è tale perché esistono delle persone che lo considerano il loro luogo, persone che lo abitano, lo popolano, lo vivono, lo pensano e lo modificano interagendo con esso. Ogni luogo è fatto delle sensazioni che ci evoca, delle immagini che ne costruiamo e quelle che ne ereditiamo.

Citando Pontalis , “ci vogliono parecchi luoghi dentro di sé per avere qualche speranza di essere se stessi”. Cerchiamo un particolare luogo del mondo per dare un’immagine a qualcosa che è già in noi. Come scrive Rilke, noi “nasciamo, per così dire, provvisoriamente, da qualche parte; soltanto a poco a poco andiamo componendo in noi il luogo della nostra origine, per nascervi dopo, e ogni giorno definitivamente”.

In altre parole, il rapporto che una persona instaura con l’ambiente dev’essere visto in termini generativi di se stessi. Quindi, cercando luoghi diversi, una persona cerca se stessa, cerca la propria identità, e la va costruendo ogni volta che cambia paesaggio e città. Ciò è positivo perché serve ad arricchire la propria personalità di esperienze provenienti dal contatto con diversi ambienti e persone di altre culture. Noi capiamo chi siamo proprio nel confronto con realtà e persone diverse.

Tuttavia, un individuo con un senso di identità fragile è alla continua ricerca di conferme dall’esterno, e rischia di entrare in un meccanismo di dipendenza dai viaggi, o di cambiare sé stesso e il proprio modo di pensare solo per “adeguarsi” al paese in cui “fugge” ogni volta scappando simbolicamente da se stesso. La ricerca scientifica l’ha chiamata “sindrome di Wanderlust”, e ha scoperto un meccanismo di dipendenza da dopamina nel cervello, simile a quello che si instaura per le droghe pesanti. Queste persone provano una grande eccitazione nel programmare nuovi viaggi, e non vogliono restare a lungo nello stesso luogo perché vivono il continuo bisogno di sentirsi stimolate dalla novità di nuovi ambienti, persone e paesaggi. Proiettandosi in luoghi diversi e spostandosi in continuazione, queste persone difficilmente riescono a creare legami profondi con un luogo.

“Mettere radici” e stabilire legami profondi con luoghi soggettivamente significativi è invece fin dall’antichità un’esperienza comune nella vita degli esseri umani. A questo speciale sentimento che ci lega ai luoghi importanti della nostra vita è stato dato il nome di “place attachment”, ovvero attaccamento a un luogo. Nasce dal bisogno ancestrale di avere legami, di controllare il mondo, di sentirci di appartenere ad esso e in esso di permanere. In particolare, i luoghi acquisiscono per noi un valore affettivo nella misura in cui essi sono scenario delle nostre esperienze di vita più significative. Come si spiega allora il bisogno di andare via anche dai luoghi amati, o dai propri luoghi nativi?

Oltre ai significati individuali, legati alle esperienze e alle memorie personali, l’attaccamento al luogo è influenzato dai significati simbolici condivisi tra i membri di una comunità. I processi di globalizzazione e la diffusione dei fenomeni migratori da una parte, e del “mito di una vita migliore” dall’altra, hanno portato ad una progressiva omologazione dei luoghi, e ad un indebolimento delle idiosincrasie culturali. D’altra parta, la diffusione capillare dei nuovi media, in cui ognuno puo’ farsi “travel blogger”, ha ampliato e modificato la definizione di luogo, includendo anche i “non-luoghi virtuali”. Oggi spesso viaggiamo inseguendo la visione che di un luogo ha avuto un altro, cercando di riprodurre la sua personale “proiezione”. Perché in essa, noi inseguiamo l’Anima che abbiamo perso e non sentiamo più nel luogo in cui invece siamo. Ciò che emerge è una sempre maggiore permeabilità dei confini, non solo di città e paesi, ma anche della nostra psiche.

I luoghi ci chiamano, ci inseguono con le loro immagini, i loro simboli e i loro significati. Gli antichi avevano compreso l’importanza e la complessità di questo processo: le civiltà classiche, infatti, avevano l’usanza di consacrare i luoghi a un nume, il Genius Loci (lo “spirito del luogo”), che aveva un particolare rapporto con l’armonia del luogo, presiedendo alla buona relazione tra i diversi elementi (acqua, venti, vegetazione, etc) e che veniva immaginato incollerirsi quando le caratteristiche del luogo venivano alterate, fino a perseguitare l’uomo che vi abitava.

Secondo James Hillman, “i luoghi rivelano loro stessi non tanto attraverso la concentrazione di particolari o una descrizione grafica dettagliata, quanto piuttosto attraverso ‘lo sguardo’. La visione che accoglie “tutto” come anima, atmosfera, natura e genio del luogo”. Hillman ci richiama non alle foto dei blog e alla visione “di superficie” dei luoghi, ma alla centralità dello sguardo dell’immaginazione, e del vedere in profondità, con l’anima, i luoghi del mondo. Bisogna guardare un luogo “in trasparenza”, cioè attraverso i suoi significati. L’intimità, l’interiorità, la profondità del luogo è l’anima del luogo stesso. Dobbiamo quindi “fare anima” nei luoghi e con i luoghi, ovvero applicare a riscoprirne lo spirito, quella componente magica del significato interiore che oggi sembra essere del tutto trascurata e dimenticata.

Recuperare l’attenzione allo “spirito” di un luogo significa recuperarne la Bellezza, e con questo arricchire la propria anima, nutrirla di immagini, sentirla viva. La Psicologia Archetipica propone un recupero del contatto autentico con la psiche e con le molteplici e polisemiche immagini attraverso le quali essa si rivela nei luoghi. In una tale prospettiva, i luoghi che gli individui abitano o ai quali anelano, sia essi esterni che interni, possono essere il punto di partenza per una ricerca dell’Anima nel profondo. Perché il proprio posto nel mondo è quello in cui la propria anima si ritrova e puo’ liberamente transitare, e sentirsi così nella sua casa.

Commenti

Lascia un commento

Potrebbe anche piacerti: