Sul vedere psicologico

Un campo specifico di realtà immaginali

Il mundus imaginalis si presenta come un luogo da conoscere, una sorta di dimensione o stato che rivela il valore psichico dell’esperire e che si designa anche come realtà psichica.

Come sottolinea Hillman: “È un campo specifico di realtà immaginali, il quale richiede metodi e facoltà percettive diversi da quelli richiesti dal mondo spirituale o dal mondo empirico e ingenuo della normale percezione sensoriale (Psicologia archetipica, 1980, Enciclopedia del Novecento, p. 814)”.

Non si può trascurare questa definizione perché in essa sono contenute numerose questioni a mio avviso fondamentali che potrebbero aiutare a capire il senso caratteristico del fare anima.

Ci si domanderà allora quali siano questi metodi e facoltà percettive che permetterebbero di cogliere le realtà immaginali.

In primis, parlando di mundus imaginalis, si dovrebbe risalire agli scritti di Corbin che si rifanno al Sufismo di Ibn Arabi e alla filosofia di Sohravardi per capire cosa sia l’immaginazione nel senso originale del termine e a quale corrente di pensiero appartenga.

In secondo luogo, è doveroso fare dei riferimenti all’immaginazione attiva dal momento che è il metodo originale che Jung sviluppò e che Hillman mantiene nell’esercizio della psicologia archetipica.

Infine, possiamo analizzare alcune facoltà percettive che Hillman ha messo in evidenza per cogliere la realtà psichica.

L’immaginazione creatrice

Corbin si avvale dello studio dell’opera di Ibn Arabi per definire cosa sia l’immaginazione creatrice ritenendo il mistico Sufi del tutto in linea con il pensiero di autori rinascimentali come Paracelso o visionari come Jacob Bohme (H. Corbin, 1958, L’immaginazione creatrice, Laterza, Bari, 1993). Per semplificare l’assai complessa questione possiamo partire dicendo che va distinta la fantasia dell’immaginazione. La fantasia costituisce un’evasione del pensiero in quello spazio mentale dove è possibile rappresentarsi di tutto sconfinando in un campo che potremmo definire irreale. La completa sovrapposizione tra immaginazione e fantasia ha fatto prevalere il principio che i due termini si riferiscono alle possibilità del farsi immagini mentali a piacere, le quali non hanno alcun genere di valore o peso sul piano della realtà che conosciamo attraverso i sensi. Corbin sottolinea invece che l’immaginazione vera è ben altro dalla fantasia e rivelerebbe un luogo prodotto ad un’azione creatrice che deriverebbe da un atto divino. La forza creatrice è opera dell’Essere Divino che si presenta come una Nube primordiale che si rivela a se stessa differenziandosi. Da una luce primordiale uniforme e diffusa discenderebbero le forme distinte che a loro volta oscurando la luce definirebbero l’essere dal non-essere.  L’atto creativo troverebbe la sua validità nel mantenere la relazione tra luce creativa e immagine creata in una comprensione trasparente, capace cioè di cogliere nelle forme opache la loro relazione con l’agente creatore. L’individuo che immagina si pone nello stesso atto creativo del Divino e così facendo entra nella creazione partecipando della rivelazione.

Una tale manifestazione è percepita attraverso l’immaginazione attiva che Corbin definisce come uno stato di sogno in dormiveglia, un particolare stato di coscienza quindi, differente dallo stato di veglia ordinario o dal sonno propriamente detto. Ciò che si coglie in questa dimensione sarebbe trasmissibile nella condizione ordinaria di veglia mediante un esercizio ermeneutico, il Ta’wil, che permetterebbe di formare simboli e termini comprensibili razionalmente. L’immaginazione sarebbe il luogo delle apparizioni divine e delle storie sacre, la dimensione nella quale avverrebbero tutte le manifestazioni sottili e straordinarie. La domanda che ora ci poniamo è se Hillman consideri il mundus imaginalis esattamente così come lo presenta Corbin o se ne ha fatto una sua lettura.

Per Hillman “Il Mundus Imaginalis fornisce agli archetipi quella fondazione cosmica e assiologica che non potrebbero loro fornire, per esempio, gli istinti biologici, le forme esterne, i numeri, la trasmissione sociale e linguistica, le reazioni biochimiche o la codificazione genetica (Hillman, 1980, op. cit.)”.

Si evince che l’interesse dell’autore sia quello di trovare una dimensione autonoma della psiche che dia comprensione delle sue caratteristiche senza dover ricorrere a campi del sapere che andrebbero a ridurre lo psichico ad altro da sé.

Tuttavia, l’eredità filosofica è ben segnata dal momento che fa risalire la psicologia archetipica a una tradizione di pensiero tutta occidentale che inizia con Eraclito e Platone, per passare a Plotino, Proclo, Avicenna, gli islamici Ibn Arabi e Sohravardi, sino ai filosofi del Rinascimento come Ficino o Paracelso e poi a Vico, per arrivare ai poeti come Blake, Keats, Coleridge.

L’accezione che emerge non è quella orientata sul misticismo come esposta da Corbin, quanto una tendenza verso l’aspetto poetico teso a mantenersi nello spazio dell’immaginazione come luogo in cui l’esperienza inizia e si consuma.

Da Corbin comprendiamo che la fruizione del mundus imaginalis è fatta di due momenti: la visione diretta, l’immaginazione attiva, creatrice, teofanica e il ta’wil, la fase di trasmissione e interpretazione simbolica.

L’immaginazione attiva

Prima ancora di ritrovare in Corbin il fondamento ontologico e storico dell’immaginazione, l’immaginazione attiva definisce la tecnica utilizzata da Jung per porsi in relazione con i suoi personaggi interiori da cui trasse esempio per le teorie. Nello spiegare la tecnica Von Franz (M. L. Von Franz, L’immaginazione attiva, Rivista di Psicologia Analitica, 1978) mise in evidenza un aspetto, il confronto etico con l’immagine. Con esso si riferiva al prendere sul serio l’immaginazione tanto da renderne i suoi contenuti ed effetti reali. Proprio in questo passaggio emerge il modo d’intendere la differenza tra fantasia e immaginazione in una chiave che non tenga necessariamente conto dell’elemento metafisico o intervento creativo divino, aspetto che comunque Jung ammette allorché parla di creatio continua.

L’immaginazione attiva è portante anche nella psicoterapia proposta dalla psicologia archetipica tesa ad usarla per dare vita ai personaggi psichici prendendoli ‘seriamente’ ma non ‘letteralmente’. Parte importante oltre all’immaginazione resta la modalità del dialogo che risponderebbe a quella modalità di amplificare e curare l’immagine riconducendo ad esse i sintomi e le sfumature della personalità. Tuttavia, almeno nello scritto in cui l’autore parla in modo esplicito della terapia e dunque del fare anima, non si riescono a capire altri aspetti della percezione particolare che aiuta a cogliere l’immaginale. Verrebbe da dire che il centro resta nel sogno o nel dormiveglia di Corbin, ma spesso ricorrono riferimenti ad un sentire che è anche attivo nel vivere quotidiano e fuori dal setting. Se il metodo ermeneutico del ta’wil ci rimanda all’amplificazione come proposta da Jung, resta però un modo di vedere e cogliere la realtà psichica che è diretto e potrebbe non essere solo limitato ad un’esperienza visionaria onirica.

Intuizione e percezione immediata e diretta

Nel capitolo ‘Ritorno agli invisibili’ nel Codice dell’anima, Hillman considera l’intuizione come una funzione fondamentale per cogliere l’aspetto invisibile della psiche che è presente nell’esperienza immediata delle cose che ci circondano o che sentiamo interiormente. L’atto di cogliere in modo istantaneo e diretto senza mediazione di pensiero, il sentire irrazionale come lo intendeva Jung nella tipologia psicologica, permette di vedere mediante un’ispirazione che è l’essenza stessa del pensiero mitico. Per questo un occhio intuitivo che coglie l’anima vivificante che è la realtà psichica percepisce direttamente dentro e intorno a sé la comprensione che appare come un sentimento poetico di pura ispirazione. L’intuizione però non è sufficiente per dare conto della verità di un’esperienza, le intuizioni possono essere sbagliate o assecondare pensieri magici sino a favorire ossessioni o paranoie. Questo se l’intuizione è dominante mentre quello che comunemente accade è che l’intuizione deve essere servita dal pensiero e sentimento nonché da una dose di pragmatismo sensoriale.

Capire le intuizioni permette di potersi affidare a una sensibilità che tutti possiedono e che risiede nella fiducia dei processi inconsci, gli aspetti autonomi che l’Io tende a ignorare, rimuovere o annullare. Accanto all’intuizione Hillman fa riferimento ad un modo di percepire fatto di sensazione colta nella sua qualità pura scevra da interpretazione. Il sentire di Hillman sembra quello del sentire proposto dallo Zen buddhista, nella mela ci sia solo la mela e nient’altro, nel visto ci sia solo il visto, nel sentito, solo il sentito. Per risalire a questa purezza del sentire, la visione in trasparenza, bisogna fare un’opera di smantellamento delle sovrastrutture concettuali, diagnostiche e categoriche come ha ampiamente illustrato nei confronti della psicologia nominalista.

Conclusioni

La percezione pone in essere e mantiene in vita l’essenza di ciò che è percepito; e quando la percezione vede nella santità degli affetti del Cuore, come appunto ci dicono le nostre storie, si disvelano cose che dimostrano la Verità dell’Immaginazione (J. Hillman, 1996, Il codice dell’anima, Adelphi, Milano, 1997, p. 165)”.

Intuizione e percezione diretta libera da schemi disvelerebbe il sentire del cuore e con esso si rivelerebbe il vedere creativo, condizione essenziale del fare anima.

Immagine: Rembrandt, La lezione di anatomia del Dott Tulp, 1632.

5 risposte a “Sul vedere psicologico”

  1. Avatar Stefano Cobianchi

    Credo che Hillman abbia fatto una sua lettura del Mundus Imaginalis di Corbin, collegandolo alla sua esperienza diretta con l’immaginazione. Credo altresì che non sia possibile discernere il Mundus Imaginalis se non attraverso la propria esperienza con l’immaginazione, e questo fondamentale capitolo della storia della psicologia non verrà mai scritto e chiarito ai più se non verranno forniti dati empirici al riguardo, ovvero le proprie descrizioni e le narrazioni delle proprie esperienze col sogno e con l’immaginazione. Ad esempio, ciò che Corbin dice essere l’immaginazione attiva, descrivendola più come un sogno spontaneo, è abbastanza differente da ciò che Jung dice su di essa, o da ciò che se ne deduce dagli scritti suoi e dei suoi seguitori (es. la Von Franz), in cui pare che sia come un esercizio interattivo meditativo, e da come poi ne parla Hillman, ovvero come visione in trasparenza e psicologizzazione. Siamo sempre al livello del solito problema epistemologico: uno psicologo è capace di fare esperienza della psiche e dell’immaginazione solo in base al suo modo di vedere, e nella psiche, come nel sogno e nell’immaginazione, cio’ che è visto viene confuso col “come” è visto. Per cui si parla di fantasie archetipiche, di fantasia, di fantasticherie allo stesso modo che di immaginazione, di sogno, di sogno lucido, di visione, di reverie, di riflessione, di pensiero spontaneo, di trasogno, di trance, di meditazione, di stato alterato di coscienza, e allo stesso modo di intuizione e sensazione. Un primo livello di distinzione, tanto per fare chiarezza, sarebbe da attribuire al fatto se l’immaginazione (e l’esperienza del Mundus Imaginalis) sia introversa o estroversa, ovvero se percepita interiormente, come un sogno o l’immaginazione attiva, o esteriormente, come una visione o l’immedesimazione attiva. Una cosa è certa: il Mundus Imaginalis non fa parte di questa dimensione diurna, ma di un altro mondo, che ancora non sappiamo come faccia a entrare in contatto con noi. Quello che possiamo fare, invece, è riconoscere che quando cio’ accade, siamo nell’ordine di una sincronicita’. Questo è argomento del mio prossimo libro.

  2. Avatar PIERLUCA NICOLÒ
    PIERLUCA NICOLÒ

    L’empirismo dei contenuti psichici spontanei è a oggi il fondamento da cui partire per una scientifica cura dell’anima, che è di diritto una psicopoiesi dunque, un “fare anima”. Il contenuto, autopoietico, che presenta un telos e una natura intrinseca, sarà sempre in linea con l’omeostasi verso cui tende la psiche. Infatti Brignoli rimanda agli studi di Corbin sul platonismo arabo e introduce l’idea di “immaginazione creatrice”, che è un metodo dei Sufi per accedere a stati psichici profondi, un “aldilà” (mundus imaginalis) che è descritto come anche bazakh ovvero “schermo” o “intermondo”. Poiché l’essere psicologico fa spontaneamente esperienza di tale dimensione, nei sogni potrebbe apparire come una porta, il suo più arcaico simbolo è rappresentato dal cancello del mondo infero, con tutti gli archetipi di morte e rinascita che esso porta con sé. Cobianchi dice:

    “Siamo sempre al livello del solito problema epistemologico: uno psicologo è capace di fare esperienza della psiche e dell’immaginazione solo in base al suo modo di vedere, e nella psiche, come nel sogno e nell’immaginazione, cio’ che è visto viene confuso col “come” è visto. […]
    Un primo livello di distinzione, tanto per fare chiarezza, sarebbe da attribuire al fatto se l’immaginazione (e l’esperienza del Mundus Imaginalis) sia introversa o estroversa, ovvero se percepita interiormente, come un sogno o l’immaginazione attiva, o esteriormente, come una visione o l’immedesimazione attiva. Una cosa è certa: il Mundus Imaginalis non fa parte di questa dimensione diurna, ma di un altro mondo […]”.

    Proprio perché non parliamo di questo mondo, ovvero il materialismo in cui fa esperienza il livello soggettivo della psiche, estroversione percezione introversione sono “fantasie” o posizioni o prospettive opposizioniste. Nella realtà dell’anima in cui siamo sempre immersi tali opposizioni si dissolvono; rimangono tali nel soggetto per esigenza nevrotica di non frammentarsi o per l’inflazione della posizione o fantasia “spirito”, tipico della scienza, della filosofia e teologia per osservare dall’esterno i fenomeni. Ma il soggetto è inconsapevole che la fantasia è sempre in atto e crea una realtà che appare oggettiva. Mentre parliamo e scriviamo anche noi siamo agiti da posizioni e fantasie, è impossibile per Hillman una reale oggettività psicologica. Non sarebbe dunque sempre il ta’wil di Corbin (oggettivizzare l’esperienza psicologica) il metodo di intendere tali esperienze e tradurle nel loro senso simbolico e nel loro senso-significato in ottica individuativa?

    Brignoli dice:

    “L’intuizione però non è sufficiente per dare conto della verità di un’esperienza, le intuizioni possono essere sbagliate o assecondare pensieri magici sino a favorire ossessioni o paranoie. Questo se l’intuizione è dominante mentre quello che comunemente accade è che l’intuizione deve essere servita dal pensiero e sentimento nonché da una dose di pragmatismo sensoriale”.

    Questo è un problema fondamentale, perché investe l’etica terapeutica. Non farei riferimento alle funzioni junghiane ma al ta’wil come fenomeno di connessione. L’esperienza rivelatrice o noetica dice Hillman in La vana fuga dagli dei p. 65, può diventare disturbo del nous perché include in sé il suo opposto ovvero la ricerca incessante della psiche di accedere al senso-significato di tutto ciò che esiste nell’universo interno ed esterno, e che può diventare letterale o verità assoluta, malattia. Il disturbo del nous ovvero paranoia o ossessioni dice Hillman si pone in essere se non vi è mediazione operata da una “educazione alla realtà dell’anima” , ovvero ogni esperienza psicologica delle immagini va intesa come primariamente simbolica e metaforica. Che sia questo lo scopo del “vedere psicologico”, dell’immaginazione creatrice delle idee (eidos) a cui pazienti e terapeuti si dovranno connettere per la cura dell’anima?

    1. Avatar Stefano Cobianchi

      Nicolò dice: “Mentre parliamo e scriviamo anche noi siamo agiti da posizioni e fantasie, è impossibile per Hillman una reale oggettività psicologica. Non sarebbe dunque sempre il ta’wil di Corbin (oggettivizzare l’esperienza psicologica) il metodo di intendere tali esperienze e tradurle nel loro senso simbolico e nel loro senso-significato in ottica individuativa?”

      Non credo che possiamo essere in grado di farlo, ovvero scindere l’esperienza dalla fantasìa da cui siamo agiti, e uscire dal punto di vista dell’io per guadagnare un punto di vista oggettivo. Prendiamo l’esempio del sogno: anche se ci sono sogni in terza persona, dove il punto di vista del sognatore è esterno e può addirittura vedersi da fuori come immagine tra le altre, nel momento stesso che il sogno viene fatto si crea un altro io, un punto di vista sula scena e magari sull’io stesso, che è il risultato di una scomposizione dell’io in più io onirici. Il fatto stesso che per fare un sogno ci sia sempre bisogno di un io onirico, di un punto di osservazione, rende l’osservatore inscindibile dal fenomeno della fantasìa immaginativa creatrice o dal fenomeno in atto, e questo appare anche confermato dalla fisica quantistica. Allora la domanda diventa: quando oggettiviamo l’esperienza traducendola nel suo senso simbolico e psicologico, non stiamo sempre dentro una fantasìa, a un sogno, e a un io che la riceve o la osserva? Non vedo modo di poter uscire da questa condizione, neanche quando siamo morti: anche lì ci sarà un io onirico che vivrà più o meno la sua esperienza di morte come immagine insieme alle altre. Ma mi sembra proprio questa una reale risposta: la soggettività dell’io è anche oggettività perché l’io è già una immagine tra le altre, è l’io stesso una fantasìa. Ritorniamo allora all’oggettivare l’esperienza psicologica come fantasìa: ciò che è possibile è riconoscere l’oggettivo nel soggettivo, e viceversa, perché il soggettivo già è oggettivo nella sua natura psichica, e questo può dissuaderci dalla letteralizzazione.
      In relazione a questo, non credo che l’ottica individuativa sia un metodo affidabile per stabilire se una immagine fantastica sia più o meno oggettiva: c’è sempre un io che stabilisce quale sarebbe la sua individuazione, e pone una scelta in base alla sua ottica, appunto, al suo punto di vista o modo di vedere del momento. Chi può arrogarsi il diritto divino di stabilire quale sia il destino di una immagine, così come quello di un individuo? Abbiamo però una risposta utile a questa domanda: “È reale ciò che agisce”, ricorda Jung. In questo senso, e mi pare che l’individuazione sia da rimandare al senso del numinoso delle immagini, perché chi è in grado di stabilire con una certa sicurezza quale sia lo scopo individuativo di un immaginario psichico, se non la sua numinosità o la sua capacità di insight e di “illuminazione”?
      Allora, mi sembra molto più utile e interessante per lo scopo psicologico e terapeutico stabilire una relatività temporale del senso e del significato del processo immaginativo, proprio nella sua descrizione: venendo da un mondo dove non c’è punto osservativo ma incontrandolo nel nostro, l’immagine e l’immaginazione come fantasìa incontra sempre un io o un punto di osservazione che, proprio rispetto alla non-località e a-causalità temporale dell’immagine, si collega a questo punto di osservazione e come coincidenza significativa presenta l’occasione di una sua fruizione e descrizione, sempre nell’ottica relativa dello stato interno dell’osservatore. Il soggetto e l’oggetto devono chiaramente coincidere perché l’esperienza dell’immaginazione è una sincronicità tra due dimensioni, quella della soggettività e quella della psiche oggettiva o del mondo delle immagini, per l’appunto. A me sembra che questa mia descrizione sia quella più utile proprio nella chiave della pratica psicologica e terapeutica, aldilà delle varie filosofiche e metafisiche, come il ta’wil, che mi sembra più una astrazione che poi ognuno nell’ esperienza personale difficilmente può tradurre in un modo psicologico oggettivo, proprio perché tenta di eliminare la soggettività dall’immaginazione. Sfido chiunque a fare una descrizione empirica e pratica di come abbia fatto esperienza del ta’wil ed essere certo che si tratti di esso e non di una fantasìa o esperienza onirica condizionata da una soggettività osservatrice. Invece siamo tutti capaci di descrivere le sincronicità che accadono nella nostra vita quotidiana, proprio perché per fare psicologia e oggettivare l’esperienza soggettiva ci servirà sempre una soggettività da mettere in relazione all’oggettività individuativa. In soldoni, riportare l’immagine o la fantasìa al suo valore oggettivo non è il passo definitivo che la psicologia (e la terapia) deve compiere, ma solo il primo.
      Dice Nicolò: “L’“educazione alla realtà dell’anima” , ovvero ogni esperienza psicologica delle immagini va intesa come primariamente simbolica e metaforica. Che sia questo lo scopo del “vedere psicologico”, dell’immaginazione creatrice delle idee (eidos) a cui pazienti e terapeuti si dovranno connettere per la cura dell’anima?” La mia risposta è sì, ma non l’unico, semmai il primo passo. Che ci facciamo con la conoscenza della realtà dell’anima, se poi non la riportiamo all’anima stessa compiendo la sua funzione vitale? Saremmo tutti bravi esploratori e conoscitori del ta’wil, ma continueremo ad esseri inetti sofferenti nel mondo. Riportare l’anima all’anima del mondo è allora il vero scopo di una terapia. Sono le scelte e le decisioni che vengono proprio dalla connessione di senso e significato con la realtà dell’anima, che ci fanno non solo cambiare il modo di vedere, ma di conoscere e di agire. Questa connessione avviene nell’ordine delle sincronicità, vuol dire che alla realtà dell’anima è necessario collegare e trasferire senso e significato alla ‘realitat’ così come la viviamo, e a mio avviso questo processo Hillman lo descrive quando parla di “animazione” e del recupero dell’anima delle cose del mondo. Il sogno ci offre un esempio di come questo già avvenga in natura, ponendo la sua inscindibilità tra il cosa vediamo e il come lo vediamo, tra gli eidola e il sognatore.

      1. Avatar PIERLUCA NICOLO'
        PIERLUCA NICOLO'

        Cito Cobianchi:
        “In relazione a questo, non credo che l’ottica individuativa sia un metodo affidabile per stabilire se una immagine fantastica sia più o meno oggettiva: c’è sempre un io che stabilisce quale sarebbe la sua individuazione, e pone una scelta in base alla sua ottica, appunto, al suo punto di vista o modo di vedere del momento”.

        Nel diventare altro, si diventa sé stessi, e nel diventare sé stesso il soggetto (ego) diventa consapevole (la condizione dell’uomo moderno è l’inconsapevolezza dei soggetti archetipici) del policentrismo psichico a lui sconosciuto e a cui resiste.

        “la soggettività dell’io è anche oggettività perché l’io è già una immagine tra le altre, è l’io stesso una fantasìa”.

        Cobianchi qui omette un punto fondamentale a mio parere: il soggetto non si comporta come un’ immagine tra le altre, perché la sua malattia è l’unilaterale convinzione di essere padrone in casa sua. La conoscenza di sé e dei soggetti archetipici è frutto di un processo, che Jung chiama analitico (confronto con le profondità della psiche oggettiva). Quindi non data come condizione psicologica iniziale ma un “fine” verso cui la psiche tende, che nelle metafore alchemiche viene simbolizzata dalle operazioni nere che Hillman intende come dimensione avanzata dell’opera. Si parte dal caos infatti per poi accedere alla nigredo, la dissolvenza della serrata soggettività per “rinascere” consapevole dell luminosità multiple (soggetti archetipici come nel simbolo della coda di pavone, tanti occhi o coscienze). L’albedo in tal senso è frutto di un processo, non condizione iniziale.

        “In questo senso, e mi pare che l’individuazione sia da rimandare al senso del numinoso delle immagini, perché chi è in grado di stabilire con una certa sicurezza quale sia lo scopo individuativo di un immaginario psichico, se non la sua numinosità o la sua capacità di insight e di “illuminazione”?”

        Infatti nella corrispondenza microcosmo macrocosmo dell’ermetismo (che Cobianchi segnala giustamente come sincronicità), il soggetto archetipico (nume) soddisfa la sua natura intrinseca, si realizza. Mentre si realizza, concorre a realizzare la realtà dell’anima (anima mundi), in cui il soggetto “apprende” dopo il processo individuativo, di essere un’ immagine tra le altre, un soggetto tra i soggetti.

        “Il soggetto e l’oggetto devono chiaramente coincidere perché l’esperienza dell’immaginazione è una sincronicità tra due dimensioni, quella della soggettività e quella della psiche oggettiva o del mondo delle immagini, per l’appunto. A me sembra che questa mia descrizione sia quella più utile proprio nella chiave della pratica psicologica e terapeutica, aldilà delle varie filosofiche e metafisiche, come il ta’wil, che mi sembra più una astrazione che poi ognuno nell’ esperienza personale difficilmente può tradurre in un modo psicologico oggettivo, proprio perché tenta di eliminare la soggettività dall’immaginazione”.

        Condivisibile il punto di vista di Cobianchi, laddove però il ta’wil descritto da Brignoli non ha nulla di metafisico perché rappresenta un esercizio ermeneutico ovvero un processo di simbolizzazione delle immagini presenti in un “aldilà”, per evitarne appunto la letteralizzazione o il disturbo del nous.

        1. Avatar Stefano Cobianchi

          Nicolò dice “Cobianchi qui omette un punto fondamentale a mio parere: il soggetto non si comporta come un’ immagine tra le altre, perché la sua malattia è l’unilaterale convinzione di essere padrone in casa sua. La conoscenza di sé e dei soggetti archetipici è frutto di un processo, che Jung chiama analitico (confronto con le profondità della psiche oggettiva). Quindi non data come condizione psicologica iniziale ma un “fine” verso cui la psiche tende”
          Parlando del sogno e del materiale onirico, chi o cosa ci dice che l’io onirico sia sempre unilaterale? ma ancora prima, chi ci dice che l’io onirico sia una rappresentazione dell’io diurno? Noi non possiamo fare questa diretta correlazione a meno di non ricadere nell’errore junghiano e costruttivista che il sogno sia un messaggio sull’esperienza del diurno… e forse anche Hillman si rigirerebbe nella tomba. Le nostre inferenze come clinici archetipici dovrebbero basarsi sulla realtà ontologica delle immagini psichiche, e non essere ricondotte direttamente all’atteggiamento del paziente come con le associazioni. Non che questo procedimento sia sbagliato, ma è appunto un procedimento che esclude l’esistenza di una realtà ontologica e archetipica, o comunque ricondurrebbe il sogno inevitabilmente all’inconscio personale e non a quello archetipico. Se gli archetipi sono nel metaxy, l’io può avere benissimo un atteggiamento lateralizzato e le immagini oniriche mostrare tutt’altro. Il procedimento archetipico dovrebbe allora essere quello che tratta le immagini oniriche come una messa in scena del metaxy o del Mundus Imaginalis, laddove l’io onirico è sì una immagine come le atre, mentre l’atteggiamento lateralizzato dell’io diurno non può nemmeno essere associato a quello che può apparire come tale nell’io onirico, perché questa associazione allora dovrebbe farla da sé il paziente, attraverso un suo insight su se stesso. Vedere l’io lateralizzato nell’io onirico e nel suo atteggiamento nel sogno è, a mio avviso uno dei più grandi errori che faceva Jung e che pure Hillman spesso ripete, quello di fare diagnosi e prognosi col sogno. Se il sogno è una sincronicità, soltanto il sognatore potrà dirci qual è il significato del sogno su se stesso, e l’analista hillmaniano dovrà astenersi dal suo giudizio sul paziente e limitarsi in primo luogo a fornire una analisi ontologica e oggettiva delle immagini oniriche, restando appunto a ciò che accade nel sogno e alla sua narrazione, senza aggiungere le sue personali interpretazioni e proiezioni cliniche. Ma so bene che questo è difficile, e conosco ben pochi che sono in grado di farlo senza ricadere nell’analisi junghiana del sogno come compensazione, o almeno senza farlo come primo approccio e lettura del sogno.

5 Commenti

Lascia un commento

Potrebbe anche piacerti: